Home > Notizie > i nostri articoli > Food for health: il diritto alla salute è quello di vivere sani

Di Manlio Masucci, articolo tratto dalla rivista Terra Nuova di settembre 2018

E’ il momento di passare all’azione. Parola di Vandana Shiva che ha chiamato a raccolta esperti da tutto il mondo per redigere un Manifesto in grado di fornire agli agricoltori, ai consumatori, agli attivisti e alle organizzazioni della società civile gli strumenti essenziali per rivendicare il diritto ad un’alimentazione sana. Il titolo del Manifesto, “Food for Health”, cibo per la salute, diviene allora la parola d’ordine di una campagna internazionale che intende riunire i movimenti ambientalisti e gli scienziati di tutto il mondo al fine di stimolare un cambio di paradigma necessario per il benessere del pianeta e di tutti gli esseri viventi che lo abitano.

La necessità di una campagna di informazione e di un piano di azione a livello globale sugli effetti nocivi del cibo prodotto industrialmente sull’ambiente e sulla nostra salute, è resa evidente da anni di studi, analisi e confronti che non lasciano spazio a ulteriori dubbi: l’attuale modello produttivo, basato sull’agricoltura industriale ad alto input chimico e sulla grande distribuzione, ha fallito i suoi obiettivi dal punto di vista sociale, occupazionale e culturale, contribuisce in maniera decisiva all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, immette nell’ambiente una notevole quantità di sostanze inquinanti che contribuiscono ai cambiamenti climatici e alla perdita della biodiversità. Il cibo immesso sul mercato presenta inoltre bassi valori nutritivi e risulta potenzialmente tossico alimentando i rischi di contrarre malattie che, a loro volta gravano, in maniera decisiva sui bilanci dei sistemi sanitari pubblici oramai allo stremo in tutto il mondo. La tragica ironia è che sono gli stessi contribuenti a sostenere i costi reali di questo modello produttivo che si regge in piedi grazie ai finanziamenti pubblici. I soldi per pagare gli incentivi alle imprese, i costi dei danni ambientali e della sanità pubblica vengono infatti prelevati dalle tasche dei contribuenti che, nel frattempo, si recano al supermercato nell’illusione di risparmiare sul costo del cibo che consumano quotidianamente.


Pubblicazioni di Navdanya a cura di Terra Nuova Edizioni


La salute del pianeta e quella degli esseri umani sono una sola cosa” ci ricorda però Vandana Shiva che intende superare i paradigmi riduzionisti e meccanicisti per recuperare le connessioni essenziali necessarie alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Proprio la connessione fra cibo e salute è una di quelle connessioni spezzate e che vanno necessariamente ricostruite. Gli autori del Manifesto hanno presentato l’evidenza scientifica dai propri settori di competenza arrivando a una conclusione comune: la produzione e il consumo di cibo industriale è connessa ad una vasta gamma di patologie  e a carenze nutrizionali. Si tratta in particolare di quelle malattie comunemente definite come “non trasmissibili”, che causano al giorno d’oggi non meno del 70% dei decessi a livello mondiale, per un totale di 40 milioni di decessi all’anno, di cui 15 milioni sono persone di età inferiore ai 70 anni. Sono patologie associabili alle abitudini alimentari delle persone nonostante il fatto che le emergenze sanitarie, le pandemie di tumori, le malattie degenerative come il Parkinson e l’Alzheimer sono spesso interpretate come casi sfortunati ma fortuiti. Non tenere in conto l’influenza dei fattori ambientali sulla nostra salute è una semplice distrazione? Non propriamente, considerando gli interessi economici dietro il sistema della produzione industriale del cibo.

L’obiettivo del Manifesto è dunque quello di analizzare e mettere in relazione lo stato di salute del nostro pianeta con quello delle persone individuando i maggiori fattori di rischio su cui intervenire nella consapevolezza di affrontare problemi epocali e sistemici. I rischi per la salute delle persone sono infatti da considerare all’interno di un sistema economico-industriale che pone al centro gli interessi privati e in secondo piano il bene comune. Un sistema estrattivista che aggira i sistemi democratici e punta al massimo profitto esternalizzando sui cittadini i costi reali. Ricostruire un sistema della conoscenza disgregato rimettendo in connessione i saperi tradizionali dell’umanità con le nuove tecnologie è dunque il punto di partenza del Manifesto che indica le alternative possibili e immediatamente praticabili. La difesa della biodiversità, il supporto delle economie locali e delle produzioni contadine a km 0, il recupero delle culture e dei saperi tradizionali, il rilancio dell’agroecologia e l’utilizzo etico delle nuove tecnologie rappresentano alcune delle proposte contenute nel Manifesto.

L’evidenza dei dati impone a chiunque sia interessato al presente e al futuro del pianeta e dei suoi abitanti di mobilitarsi per chiedere ai governi un cambiamento radicale dei modelli economici, produttivi e di distribuzione. Il Manifesto ”Food for Health” intende porsi come strumento di riferimento per rilanciare e reclamare i diritti del pianeta e di tutte le sue forme di vita e per trasformare i sistemi di produzione alimentare colpevoli del degrado dell’ambiente e del nostro stato di salute in sistemi sani capaci di generare benessere, poiché, come sosteneva Vincenzo Migaleddu, già presidente dell’associazione dei medici per l’ambiente Isde-Sardegna, “il diritto alla salute è il diritto di vivere sani non quello di curarsi”.

Un sistema economico malato

C’è qualcosa di profondamente sbagliato se un sistema economico, basato sul mantra dell’aumento della produzione ad ogni costo, non solo non ottiene i risultati che aveva promesso ma produce effetti collaterali di una gravità inaudita esternalizzando i costi dei danni prodotti sugli Stati e quindi sui suoi contribuenti. Le promesse della Rivoluzione Verde, che intendeva risolvere i problemi dell’alimentazione mondiale attraverso l’industrializzazione del settore agricolo, sono state disattese. E a dirlo non sono solo le organizzazioni della società civile, ma la stessa Fao che di quella Rivoluzione Verde rappresentava, fino a pochi anni fa, uno dei principali alfieri.

L’evidenza è oramai sotto gli occhi di tutti, anche di quelli del direttore generale della Fao, Graziano da Silva, che, a conclusione del recente Simposio sull’agroecologia tenutosi a Roma ha definito la Rivoluzione Verde un modello “esaurito” che non è stato in grado di risolvere il problema della fame nel mondo, sofferta ancora da 815 milioni di persone. Questo dato si accompagna ad altri due dati interessanti: nello stesso anno di riferimento, il 2016, quasi due miliardi di persone risultavano essere in sovrappeso mentre ben 650 milioni erano obese. Il mantra della produttività ad ogni costo, ha sottolineato ancora il Dg della Fao, ha presentato un conto insostenibile dal punto di vista ambientale a causa del massiccio uso di fertilizzanti chimici e pesticidi che hanno contribuito alla contaminazione dei suoli, all’inquinamento delle falde acquifere e alla perdita della biodiversità.

E’ allora evidente che la questione va al di là del dato relativo alla produzione, considerando che la maggior parte del cibo che mangiamo è ancora prodotta da piccoli e medi agricoltori mentre la stragrande maggioranza delle colture provenienti dal settore industriale, come mais e soia, viene utilizzata principalmente come mangime per gli animali o per produrre biocarburanti. La globalizzazione economica e l’industrializzazione non hanno quindi risolto il problema della fame nel mondo, piuttosto hanno aumentato gli sprechi come conferma ancora la Fao secondo cui circa un quarto del cibo prodotto, 1 miliardo e 300 mila tonnellate, viene perso lungo le maglie delle estese filiere produttive.

L’aumento indiscriminato della produzione ai danni dell’ambiente e della qualità del cibo non solo non ha risolto i problemi ma ne ha creati di nuovi. E’ evidente che le questioni reali riguardano la distribuzione e l’accesso al cibo come sottolinea Nadia El Hage, ricercatrice della Fao e fra gli autori del Manifesto: “Il vero problema – ci spiega El Hage – è che le persone non hanno accesso alle risorse per comprare o produrre cibo: in Asia, ad esempio, c’è abbastanza cibo per l’intera popolazione e i paesi asiatici stanno persino esportando cibo, eppure ci sono ancora tantissime persone che soffrono la fame; dobbiamo riconoscere che esiste un problema di equità nel sistema alimentare”.

Il Manifesto “Food for Health” si spinge oltre attaccando direttamente le multinazionali dell’agribusiness impegnate ad appropriarsi di una quantità sempre maggiore di terreni coltivabili al fine di incrementare sempre più la produzione ed estendere il loro controllo sul settore agricolo attraverso l’acquisizione di brevetti sui semi, l’imposizione delle colture e il controllo dei prezzi. Un modello estrattivista che intende il cibo non più come patrimonio dell’umanità ma come bene di consumo e che punta a creare monopoli senza tenere in conto la valenza nutrizionale, culturale, sociale dell’alimentazione. Le recenti inchieste “Monsanto Papers e “Poison Papers” hanno portato alla luce le strategie messe in atto da i grandi gruppi dell’agrochimica per espandere il proprio impero: dalle azioni di lobbying, alle interferenze nei procedimenti delle Agenzie governative, alle mega fusioni e acquisizioni, agli attacchi sferrati nei confronti della scienza indipendente in collusione con le istituzioni.

E non potrebbe essere altrimenti, considerando l’evidente non sostenibilità del modello agricolo industriale che non può più nascondere i suoi costi reali a carico dell’ambiente e della società. La produzione agricola industriale richiede un dispendio energetico notevole contribuendo in maniera decisiva ai cambiamenti climatici con il 29% dei gas serra immessi nell’ambiente. Nel computo rientra anche l’allevamento intensivo, ed altamente inquinante, di bestiame che copre il 70% delle terre agricole e il 30% del totale della superficie del pianeta. Anche l’utilizzo dei fertilizzanti e dei pesticidi sta comportando effetti collaterali estremamente dispendiosi. L’utilizzo di chimici sta infatti privando il suolo dei suoi nutrienti naturali mentre almeno 210 nuove specie di super infestanti avrebbero sviluppato naturalmente resistenza ai diserbanti.

Quali sono allora i costi reali di questo sistema produttivo globale, quelli che non leggiamo sullo scontrino quando paghiamo il conto al supermercato? Il gruppo di esperti del Manifesto ha messo a confronto alcuni dei dati più significati provenienti da tutto il mondo arrivando a una conclusione: l’attuale sistema produttivo basato sull’agricoltura industriale non è conveniente neanche dal punto di vista economico. È il caso degli Stati Uniti, uno dei più grandi consumatori di agrotossici al mondo, dove, negli anni ‘90 i costi ambientali e per la salute pubblica conseguenti all’utilizzo di pesticidi ammontavano a 8,1 miliardi di dollari annui a fronte di una spesa annua per l’acquisto di prodotti chimici per l’agricoltura di 4 miliardi. Insomma, per ogni dollaro speso per acquistare un pesticida, vengono spesi ulteriori due dollari per fronteggiare i danni causati dalla loro utilizzazione. Una stima simile a quella effettuata in Brasile dove, nel 2012, è stata pubblicata un’indagine sui casi di intossicazione acuta da pesticidi nello Stato del Paranà. Il costo complessivo per lo Stato brasiliano si attesta a 149 milioni di dollari ogni anno, ovvero 1,28 dollari per ogni dollaro speso nell’acquisto di pesticidi.

Per quanto riguarda l’Europa, i danni causati al sistema della salute pubblica dai pesticidi sono quantificabili in oltre 190 miliardi di euro. Ma si tratta di una stima al ribasso considerando che, in questo calcolo, sono tenuti in considerazione solo i deficit cognitivi secondari all’esposizione a pesticidi organofosforici e che non tutti i paesi dell’Unione sono allineati nelle valutazioni. E’ il caso della Francia che, già dal 2012, ha riconosciuto il nesso tra il Parkinson e l’esposizione ai pesticidi, relazione confermata dal recentissimo studio dell’Università canadese di Guelph, classificando il morbo fra le malattie professionali per gli agricoltori.

Un conto parziale e già salatissimo che le multinazionali consegnano direttamente nelle nostre mani preferendo, nel frattempo, conteggiare i dividendi milionari accumulati saccheggiando le risorse del pianeta. Si parla di danni ingenti che renderebbero il modello produttivo industriale insostenibile se i costi non venissero sistematicamente esternalizzati. Certo, quando andiamo al supermercato gli elevati costi ambientali e per la salute umana non sono riportati sul listino dei prezzi, alimentando l’illusione del risparmio, ma l’agricoltura industriale sta sicuramente facendo le fortune delle aziende produttrici e dei suoi azionisti e non certo quella del pianeta e dei suoi abitanti.

Il settore agricolo industriale può allora essere definito come uno dei maggiori componenti di quella “globalizzazione predatoria” che preferisce basarsi sull’efficienza del capitale piuttosto che sul benessere delle persone. Una questione politica prima di tutto, considerando che il cibo di derivazione industriale viene prodotto a costi elevati grazie alle sovvenzioni pubbliche e immesso nei mercati internazionali attraverso i cosiddetti “trattati di libero commercio”. I mercati locali, inondati da cibo spazzatura a basso costo, perdono i loro contadini che sotto la pressione di una sistema produttivo drogato sono costretti ad abbandonare le loro terre. E’ questo il cappio che si stringe, ogni giorno di più, intorno al collo dei contadini che, di fronte ai grandi interessi dell’agrobusiness, non sono più nelle condizioni di produrre cibo salubre lasciando i consumatori senza la possibilità di scegliere la propria dieta.

Danneggiare la biodiversità significa danneggiare noi stessi

Per comprendere quanto il sistema della produzione agricola industriale sia dannosa per la salute delle persone, occorre far riferimento al concetto che ha ispirato la redazione del Manifesto. La salute delle persone e quelle del pianeta devono essere considerate come un unicum. Gli esseri umani non possono e non devono pensarsi come un’entità autonoma rispetto al pianeta in cui vivono. Una sapienza antica già detenuta dai greci, come dimostra la massima di quello che può essere considerato come il più famoso medico della storia, Ippocrate, che invitava i suoi pazienti a considerare il cibo come la vera e unica medicina su cui far pieno affidamento. Un insegnamento riproposto anche nell’Ayurveda, ovvero la scienza (Veda) della vita (Ayur), centrata sul cibo. I contadini indiani hanno praticato l’agricoltura ecologica per 10.000 anni basandosi sulla cura del suolo, sulla crescita della biodiversità e sulla “Legge del Ritorno”. Queste pratiche antiche erano basate sui più principi scientifici ed ecologici che sostenevano le leggi della natura e del benessere sociale.

La conoscenza accumulata in migliaia di anni non è servita però a evitare l’imposizione di un modello produttivo che si basa su principi diametralmente opposti. Quando si denunciano i danni che il sistema di produzione industriale, basata sulle monocolture intensive, procura alla biodiversità del pianeta è dunque necessario comprendere quanto gli esseri umani siano parte di quella stessa biodiversità e quanto ne condividano i rischi.  Non è un caso che sempre più ricercatori si stiano concentrando sulla relazione fra la perdita della biodiversità e l’aumento delle malattie infiammatorie. La diminuzione delle nostre difese immunitarie è associata allo stato di salute del nostro microbioma, ossia il complesso di batteri, virus, funghi, lieviti e protozoi che si trova nel nostro intestino. Quello che dagli scienziati viene definito come il nostro “secondo cervello”, svolge una serie di importanti funzioni che contribuiscono in maniera decisiva alla salute del nostro sistema immunitario. Il cattivo funzionamento del microbioma, o la sua scarsa diversità, comporta maggiori rischi di incorrere in diversi disturbi neuropsichiatrici come depressione, schizofrenia, autismo, ansia mentre una recente ricerca ha concluso quanto la composizione e la diversità del microbioma siano importanti per determinare l’immunità antitumorale. E che il microbioma umano sia in una fase di sofferenza è confermato da una pratica che si sta rapidamente diffondendo negli ambienti medici, ovvero il trapianto di feci per traferire un microbioma sano in un paziente il cui microbioma risulti non più funzionale.

L’importanza del microbioma per la salute umana è dunque accertata, ma come si ottiene un microbioma sano? La buona notizia è che siamo responsabili della buona salute del nostro microbioma che non ci è tramandato geneticamente ma risente, nella sua formazione, dei fattori ambientali. E’ questo il motivo per cui i ricercatori sono sostanzialmente d’accordo nell’asserire che la diversità alimentare è di fondamentale importanza per avere un microbioma sano.

Ma è proprio in questa fase che arrivano le cattive notizie. Le moderne diete “imposte dal mercato” sono infatti ricche di elementi non salutari come zuccheri e grassi mentre la diversità sembra esserci oramai preclusa da un processo di standardizzazione che, ancora una volta, opera nell’interesse del mercato e non in quello dei consumatori, come ci spiega Salvatore Ceccarelli, genetista e fra gli autori del Manifesto: “Come facciamo a mangiare diverso, se il 60% delle nostre calorie deriva da appena tre specie vegetali, cioè frumento, riso e granturco? E come facciamo a mangiare diverso se quasi tutto il cibo che mangiamo è prodotto da varietà che, per essere legalmente commercializzate debbono essere iscritte ad un catalogo che si chiama registro varietale, e che per essere iscritte a tale registro debbono essere uniformi, stabili e riconoscibili? E’ chiaro che tra la necessità di mangiare diverso discussa finora, e la uniformità imposta per legge alle colture c’è un’ovvia contraddizione”.

L’agricoltura industriale non solo limita la varietà degli alimenti ma immette sul mercato ingenti quantità di cibo dal valore nutritivo molto basso: “Il cibo immesso oggigiorno sul mercato – rileva Nadia Hel Hage – non è della stessa qualità di prima della seconda Guerra Mondiale; rispetto a oltre 60 anni fa la maggior parte delle colture ha perso, in media, quasi il 20% delle sostanze nutritive con picchi fino al 70 o 90%”.

Il cibo che noi consumiamo è quindi sempre più carente dal punto di vista nutrizionale e potenzialmente nocivo alla salute umana a causa delle ingenti quantità di pesticidi e fertilizzanti chimici utilizzati nel processo produttivo. “Questo approccio non ecologico alla produzione alimentare, – si legge nel Manifesto – unito a pratiche di trasformazione alimentare malsane e a pratiche di marketing pubblicitarie e manipolative, hanno spianato la strada al diffondersi di diete dannose per la salute”. Anche la fase di trasformazione del cibo appare particolarmente delicata con l’aggiunta di una grande quantità di sostanze chimiche. Quello della trasformazione è un processo che riguarda circa tre quarti delle vendite di alimenti a livello internazionale. Si tratta di alimenti a cui generalmente vengono sottratte le componenti sane come le vitamine e aggiunte grandi quantità di zuccheri e grassi, conservanti, solventi organici, ormoni, coloranti, esaltatori di sapidità ed altri additivi alimentari, in particolare per il cibo che deve viaggiare per migliaia di chilometri e deve essere trattato per durare nel tempo. Si tratta di additivi i cui effetti sono spesso sconosciuti e di cui non si conoscono le interazioni con altri componenti presenti nel cibo.

Secondo gli autori del Manifesto sono queste tipologie di dieta, ricche di calorie ma povere di fibre e sostanze nutritive, insieme a regimi alimentari con livelli elevati di grassi, zuccheri e sale, che vanno associate buona parte delle MNT causate da fattori biologici di rischio quali: pressione sanguigna, zucchero nel sangue, lipidi nel sangue e grasso corporeo, che a loro volta innescano processi patologici di infiammazione, aterosclerosi dei vasi sanguigni, trombosi e inducono la carcinogenesi attraverso effetti epigenetici. Continuare su questa strada, si conclude nel Manifesto, è da considerarsi “immoralmente indifendibile” e non potrebbe essere definito, in ultima analisi, se non come un fallimento della nostra civiltà.

Pesticidi: questi sconosciuti

La domanda sorge a questo punto spontanea: quando compriamo e consumiamo quotidianamente il cibo prodotto in maniera industriale, ci stiamo effettivamente nutrendo o ci stiamo piuttosto avvelenando? E soprattutto siamo veramente informati sull’origine e la composizione degli alimenti e quindi liberi di scegliere cosa è meglio per la nostra salute?

Purtroppo, la scelta non dipende solo da noi. Anzi, in molti casi, le nostre scelte sono influenzate da una informazione errata o parziale che non rende espliciti i rischi connessi a una cattiva alimentazione. Informare sui rischi reali e riportare la scelta nelle mani dei consumatori e degli agricoltori sono alcuni degli obiettivi principali del Manifesto “Food for Health”.

La questione dei pesticidi è emblematica in quanto non tutti sono a conoscenza dei loro effetti dannosi sull’ambiente e sulla salute umana. Eppure non si tratta di notizie dell’ultima ora. Già nel 2006 la rivista scientifica The Lancet aveva pubblicato un elenco di 202 sostanze tossiche, tra cui 90 pesticidi, particolarmente pericolose per i loro potenziali effetti sul cervello umano. Le successive ricerche hanno confermato i rischi connessi all’utilizzo degli agrotossici per l’organismo umano in quanto in grado di indurre molteplici e complesse disfunzioni in tutti gli apparati, organi e sistemi, comportando quindi patologie di tipo endocrino, nervoso, immunitario, respiratorio, cardiovascolare, riproduttivo, renale. I pesticidi possono entrare a contatto con le persone in diverse maniere, per via aerea o per contatto diretto cutaneo, ma l’esposizione maggiore avviene attraverso ciò che mangiamo e beviamo. Un rischio per le persone adulte e per i bambini ma anche per i neonati che sono esposti ai pericolosi chimici in maniera indiretta per via transplacentare o attraverso l’allattamento al seno materno. Per i bambini, in particolare, ci sarebbe una maggiore possibilità di subire danni dal punto di vista cognitivo e un aumento del rischio di contrarre tumori, soprattutto leucemie e linfomi.

Insomma, sembra giunta l’ora di utilizzare l’ampia letteratura scientifica in nostro possesso per denunciare un sistema produttivo tossico e chiedere un cambio di paradigma immediato, come sostiene Patrizia Gentilini membro del Comitato Scientifico di ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente e fra gli autori del Manifesto:  “E’ arrivato il momento di smettere di mentire ai lavoratori e ai cittadini – ci conferma l’oncologa – asserendo che il cancro è dato dalla causalità; i nostri studi dimostrano che i tumori sono provocati da fattori ambientali e i pesticidi aumentano il rischio di contrarli”. I rischi per la salute sono elevatissimi ma poco conosciuti considerando l’assenza di biomonitoraggi sul nostro territorio. E non si parla solo di cancro: “Vi è ormai evidenza di forte correlazione – aggiunge la Gentilini –  fra esposizione a pesticidi e patologie in costante aumento quali cancro, malattie respiratorie, Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica (SLA), autismo, deficit di attenzione ed iperattività, diabete, infertilità, disordini riproduttivi, malformazioni fetali, disfunzioni metaboliche e tiroidee”.

Uno dei principali allarmi lanciati dalla scienziata, è quello per cui i pesticidi si comporterebbero da interferenti endocrini. E per gli interferenti endocrini e cancerogeni, sottolinea ancora la Gentilini, non esistono limiti di sicurezza. A nulla, dunque,  sembrano valere le cosiddette “soglie di sicurezza”, come conferma l’ultimo rapporto dell’Istituto Ramazzini che dimostra come il glifosato, il principio attivo di alcuni dei più diffusi pesticidi utilizzati in agricoltura, risulti tossico anche a dosi considerate “sicure”. I pesticidi a base di glifosato, indipendentemente dal dosaggio e dai tempi di esposizione, possono alterare alcuni importanti parametri biologici, in particolare relativi allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e al microbioma intestinale.

Non esistono dunque soglie di sicurezza quando si parla di pesticidi che, anche a basse concentrazioni, possono produrre seri danni alla salute umana. Ma i rischi non si limitano alla singola sostanza immessa nell’ambiente. I pesticidi che si possono acquistare sul mercato sono infatti composti da un principio attivo e dai suoi coadiuvanti che, in molti casi, sono ancora più pericolosi dei principi attivi dichiarati dalle aziende produttrici. La valutazione tossicologica riguarda il solo principio attivo dichiarato dal proponente mentre  la tossicità dei coadiuvanti, fra cui conservanti, diluenti, emulsionanti, propellenti atti ad aumentare la tossicità del prodotto, non è presa in considerazione dalle autorità preposte che basano le loro valutazioni esclusivamente sulla documentazione messa a disposizione dal proponente senza eseguire un’adeguata sperimentazione indipendente. Ciò che gli organi preposti al controllo e all’autorizzazione non considerano, o non vogliono considerare, è il cosiddetto effetto cocktail, ovvero l’interazione con le varie sostanze chimiche già presenti nell’ambiente e all’interno del singolo prodotto posto in commercio.

Il risultato di questo procedimento di autorizzazione “scientifica” è facilmente deducibile:  il consumatore, fidandosi degli organi preposti al controllo ma essendo all’oscuro delle reali procedure di autorizzazione, è indotto a considerare il prodotto finale immesso sul mercato  come sicuro. Un vero gioco di prestigio, dunque, dove la realtà è celata dietro etichette rassicuranti che riportano informazioni parziali e inaccurate. Un gioco pericoloso dove abbiamo, inconsapevolmente, piazzato la più rischiosa delle puntate: la nostra stessa salute. 

Fra propaganda e falsi miti: il veleno è servito 

L’utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi chimici è veramente necessario all’incremento della produzione e indispensabile per sfamare la popolazione mondiale in crescita o piuttosto è più utile a saziare gli appetiti delle multinazionali del settore? Sulla propaganda alimentata dalle aziende produttrici per vendere i loro prodotti, anche se nocivi, vi è un’ampia letteratura. La pubblicità, si sa, è pervasiva e convincente, sicuramente più di tanta letteratura scientifica che si è occupata estensivamente dei reali effetti degli agrotossici sull’ambiente e sugli esseri umani. Per fare un po’ di chiarezza sull’argomento è sufficiente consultare gli ultimi rapporti delle Nazioni Unite iniziando da quello di Hilal Helver, dal commissario speciale per il diritto al cibo Onu e fra gli autori del Manifesto. Anche secondo la Helver i problemi relativi alla fame nel mondo sono maggiormente legati alla povertà, all’iniquità e alla distribuzione piuttosto che alla produzione. Al contrario, aveva denunciato la Elver, l’utilizzo indiscriminato di pesticidi è da mettere in relazione alla morte di circa 200 mila persone all’anno per avvelenamento. Secondo le stime della Who e dell’Unep sarebbero almeno 26 milioni i casi di avvelenamento da pesticidi nel mondo ogni anno che, in molti casi, conducono alla morte: si contano in oltre 200 mila i decessi causati dai pesticidi ogni anno.

Dati preoccupanti ma non sorprendenti considerando come le sostanze chimiche coprano l’intera catena del valore alimentare, dai campi alla tavola dei consumatori dove sono presenti non solo in frutta e verdure ma anche in carni, pesce e prodotti lattiero-caseari. L’esposizione ai pesticidi può infatti avvenire in molti modi, compresa l’esposizione diretta, in particolare tra gli operai che lavorano alla produzione di pesticidi, tra i venditori e tra gli agricoltori che li applicano nei campi. Anche la fase di lavorazione è responsabile della contaminazione dei nostri alimenti con materie plastiche, conservanti, solventi organici, ormoni, esaltatori di sapidità e altri additivi alimentari introdotti nel cibo in questa fase.

L’esposizione avviene inoltre attraverso i residui nelle acque superficiali da deflusso agricolo, la contaminazione di pozzi e acque sotterranee, la dispersione del vento a seguito di irrorazione aerea. Insomma, non bisogna abitare a pochi metri da una monocoltura intensiva per iniziare a preoccuparsi, come ci conferma un recente studio pilota sulla contaminazione del suolo, condotto dal Centro comune di Ricerca della Commissione Europea e dall’università di Wageningen, che ha riscontrato tracce di pesticidi in più del 66% dei campioni analizzati. Le sostanze più comunemente rilevate sono il glifosato (46%), il DDT (25%) e prodotti fungicidi (24%) che, si sottolinea, si possono concentrare in particelle di terreno molto piccole, che vengono facilmente erose e trasportate dal vento e dall’acqua, con il rischio di contaminazione anche su vaste distanze.

Dati che sembrano trovare conferma nell’ultimo Rapporto nazionale pesticidi nelle acque  dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che riscontra la presenza di ben 259 agrotossici nelle acque italiane. Residui di pesticidi sono stati rintracciati nel 67% delle acque superficiali monitorate e nel 33,5% delle acque sotterranee con un trend in aumento rispetto al 2003. Anche secondo l’Ispra è il glifosato, insieme al suo metabolita AMPA, l’erbicida più presente nelle acque italiane: entrambe le sostanze, si legge nel rapporto Ispra, risultano superiori agli standard di qualità ambientale per le acque (SQA) previsti dalla norma rispettivamente nel 24,5% e nel 47,8% dei siti monitorati per le acque superficiali.

E se anche è vero che le irrorazioni agrotossiche nel nostro paese superano i 5 kg per ettaro, la percentuale più alta dell’UE, è da sottolineare come i dati italiani non si discostino molto da quelli provenienti dal resto del mondo. Fra i più grandi consumatori di pesticidi al mondo ci sono la Cina con 1.806 mila tonnellate di utilizzo annuo, seguita dagli Stati Uniti con 386 mila tonnellate di utilizzo annuo,  Argentina, 265 mila tonnellate, Tailandia, 87 mila tonnellate, Brasile, 76 mila tonnellate, mentre il Canada, con cui l’Unione Europea ha da poco sottoscritto il controverso trattato commerciale Ceta (non ancora approvato dall’Italia), si mette in evidenza con circa 54 mila tonnellate all’anno. In questa speciale classifica, anche l’Italia occupa una posizione di tutto rilievo con 63 mila tonnellate che supera il consumo annuo che avviene sull’intera superficie dell’India, 40 mila tonnellate annue.


Fonte: World Atlas

Secondo l’ultimo rapporto della Fao e dell’Iwmi, More People, More Food, Worse Water?A Global Review of Water Pollution from Agriculture è proprio l’agricoltura industriale la principale responsabile dell’inquinamento delle falde acquifere nel mondo. Il rapporto conferma  come l’utilizzo massiccio di pesticidi e fertilizzanti contribuisca a contaminare le falde acquifere mettendo a rischio la salute umana e quella del pianeta. L’agricoltura industriale è infatti responsabile del 96% delle immissioni di ammoniaca nell’aria che, reagendo con altri elementi inquinanti, produce il pericolosissimo particolato fine. Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per cambiare immediatamente modello produttivo eppure, l’immissione di sostanze pericolose nell’ambiente non sembra arrestarsi. Al contrario, secondo il rapporto Fao, l’utilizzo di fertilizzanti è destinato ad aumentare del 58% entro il 2050. Non una buona notizia considerando che già oggi 4,6 milioni di tonnellate di pesticidi chimici, fra cui erbicidi, insetticidi e fungicidi, sono cosparsi annualmente sui suoli agricoli, e che a livello globale, ogni 27 secondi viene sintetizzata una nuova sostanza chimica. Al di la dei miti e della propaganda delle multinazionali, i risultati delle analisi scientifiche provenienti dai laboratori di tutto il mondo sembrano concordare su tutta la linea confermando l’urgenza espressa dal Manifesto: basta veleni sulla nostra tavola.

E’ tempo di cambiare modello di produzione per un’alimentazione sana e priva di veleni

Quanto contano le scelte personali nel campo della buona alimentazione e quindi per poter condurre una vita salubre? Sicuramente molto, ma bisogna riconoscere che non sempre siamo liberi di operare le giuste scelte. Le scelte possono essere infatti condizionate da molti fattori esterni che, di fatto, le rendono meno libere di quanto si possa pensare. I processi di standardizzazione del cibo, il marketing aggressivo, la disinformazione, la scarsa trasparenza della filiera, l’offerta disponibile sul mercato, la politica dei prezzi dettata dagli oligopoli, sono alcuni degli elementi che condizionano le nostre possibilità di scegliere liberamente. E’ per questo che il Manifesto “Food for Health” non intende rivolgersi esclusivamente ai singoli produttori e consumatori ma anche ai Governi, responsabili del benessere dei propri cittadini e custodi dei loro diritti. La cooperazione fra cittadini, agricoltori, Università e ricercatori e istituzioni appare come un elemento essenziale per il cambio di paradigma.

Un cambiamento urgente e necessario che non può accettare compromessi come sottolinea Patrizia Gentilini: “La salute si difende a tavola e si difende attraverso la possibilità di accesso a un cibo che sia sano, cha abbia tutti quei nutrienti, tutte quelle sostanze che difendono la nostra salute e sia il più possibile scevra da residui pericolosi, sia che si tratti di contaminanti ambientali, sia che si tratti di residui dell’agricoltura chimica, quindi soprattutto pesticidi; è assolutamente venuto il momento di cambiare il modello di agricoltura ribadendo che parlare di uso sostenibile di pesticidi è un ossimoro, perché i pesticidi sono sostanze tossiche e velenose, pensate e studiate per arrecare danno ad altre forme di vita e quindi sono ovviamente pericolose anche per noi”.

Il sistema di produzione estrattivista, inquinante e lineare deve essere allora primariamente sostituito da un’economia circolare, rispettosa dei diritti delle persone e dell’ambiente. Il nostro stesso pianeta funziona, d’altro canto, in maniera circolare e potrebbe essere presto portato allo sfinimento se l’attuale sistema produttivo lineare non dovesse essere invertito. Molte buone pratiche sono già state sperimentate dimostrando che le alternative esistono e, al netto della volontà politica, possono essere messe a sistema. E’ il caso dei sistemi produttivi a filiera corta e dei mercati contadini a km0 che si sono dimostrati capaci di offrire soluzioni agli sprechi alimentari, alle emissioni di carbonio, all’impronta ecologica e alle disparità di ricchezza. I piccoli e medi produttori locali possono svolgere un ruolo di primaria importanza anche nella conservazione della biodiversità, e quindi nell’arricchimento della dieta, attraverso la conservazione dei semi delle varietà autoctone proteggendoli dall’invasione delle costose sementi di proprietà delle multinazionali.

Anche le organizzazioni sovranazionali possono giocare un ruolo fondamentale per stimolare il cambiamento. E’ il caso della Fao che ha recentemente riconosciuto come  l’agroecologia contribuisca direttamente al raggiungimento di alcuni dei più importanti Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals, Sdg) fra cui porre fine alla povertà e alla fame, garantire la qualità dell’istruzione, raggiungere dell’uguaglianza di genere, aumentare l’efficienza nell’uso dell’acqua, promuovere la creazione di posti di lavoro dignitosi, garantire consumo e produzione sostenibili, consolidare la resilienza climatica, assicurare la sicurezza dell’uso sostenibile delle risorse marine e salvaguardare la biodiversità. L’agroecologia, intesa come visione della vita basata sul concetto di integrazione tra il genere umano e la natura, può dare impulso a un nuovo modello produttivo che preservi la biodiversità e promuova la sostenibilità ambientale: “La Fao – ha sottolineato Ruchi Shroff, direttrice di Navdanya International – ha riconosciuto l’importanza della tradizionale conoscenza degli agricoltori e il ruolo cruciale che essi svolgono sul tavolo della sicurezza alimentare. Ciò che i piccoli produttori e i consumatori devono allora rivendicare è un nuovo paradigma agricolo ed economico, una cultura del cibo per la salute in cui la responsabilità ecologica e la giustizia economica abbiano la precedenza sugli odierni sistemi di produzione di estrattivi basati su consumo e profitto”.

I tempi sono dunque maturi per entrare in una fase di transizione da un modello agricolo industriale basato sulla concorrenza a un modello ecologico rigenerativo basato sulla cooperazione e sull’utilizzo etico delle nuove tecnologie. Smascherare gli interessi economici, che manipolano la conoscenza e la scienza per nascondere i costi reali delle loro attività ed estendere il controllo sui mercati, sulla nostra alimentazione e quindi sulla nostra salute, è solo il primo passo necessario per ricostruire un sistema di conoscenze basato sulla difesa della biodiversità e sulla difesa dei beni comuni. Si tratta di un passaggio epocale e necessario per rivendicare i nostri diritti democratici e fermare una deriva che rischia di portare al collasso l’intero pianeta. Il Manifesto “Food for Health” si pone come strumento di riferimento per tutti gli operatori del settore e per i comuni cittadini che intendono informarsi, comprendere i reali interessi dietro le attuali politiche di produzione alimentare, e finalmente impegnarsi direttamente in una battaglia di civiltà per un cambio di paradigma basato sui diritti dell’ambiente e degli esseri umani. Perché, come ama ricordare Vandana Shiva, “la salute delle persone e del pianeta sono la stessa cosa”.