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Di Manlio Masucci, articolo tratto dalla rivista Terra Nuova di novembre 2019

Vittime e colpevoli: il modo in cui produciamo il cibo è responsabile di buona parte delle emissioni climalteranti

Parlando di cambiamenti climatici, a volte sembra di assistere a un remake di serie b di un film di Alfred Hitchcock, dove i colpevoli sono svelati sin dall’inizio mentre il resto della pellicola continua a scorrere descrivendo le circostanze del crimine, quasi dimenticandosi che gli assassini e i suoi complici sono ancora a piede libero e nelle condizioni di continuare a commettere reati. Ecco, i colpevoli, o almeno alcuni dei principali responsabili del crimini commessi contro il pianeta e tutti i suoi abitanti, noi li conosciamo, sono stati da tempo individuati sulla base di prove documentali certe. Siamo finanche in possesso delle confessioni. Eppure il processo tarda a celebrarsi lasciando liberi colpevoli e i loro complici di continuare i loro loschi affari.

I colpevoli e i loro complici, si diceva, li conosciamo ma vale la pena di rinominarli. Sul banco degli imputati ci sono le grandi aziende agricole parte del sistema dell’agribusiness, il sistema della grande distribuzione, associazioni di lobbisti, scienziati tutt’altro che indipendenti e giornalisti compiacenti, e infine, ma non meno importante, i politici che, continuando ad erogare  sussidi e ad assicurare agevolazioni fiscali ai soggetti sbagliati, garantiscono la sopravvivenza di un apparato obsoleto e fatiscente.


Leggi anche: Biodiversità: una soluzione per il clima, articolo tratto dal libro Agroecologia e crisi climatica, di Vandana Shiva e Andre Leu


A essere sotto accusa è, in una parola, il sistema con cui produciamo il nostro cibo, responsabile di buona parte delle emissioni climalteranti. Un sistema figlio della rivoluzione verde che a partire dagli anni ’40 è stata gradualmente imposta come modello dominante con la promessa di sfamare la crescente popolazione mondiale. Prima di indagare i motivi per cui tale sistema produttivo abbia provocato, e continui a provocare, ingenti danni alla salute e del pianeta e a quella dei suoi abitanti, è allora necessario sottolineare come quella promessa sia stata completamente disattesa. La sicurezza alimentare di buona parte della popolazione mondiale non è stata affatto garantita con 820 milioni di persone al mondo che ancora soffrono la fame, secondo i più recenti dati della FAO. Il sistema produttivo ha inoltre creato nuove forme di povertà ed emarginazione, nuove emergenze sanitarie, perdita di sovranità alimentare e nuove forme di sfruttamento contribuendo ad ampliare il malessere della popolazione mondiale.

Insomma, l’alibi, costruito dagli stessi colpevoli per giustificare l’operazione di industrializzazione e della globalizzazione della produzione e della distribuzione del nostro cibo, non regge. I danni non sono stati fatti mentre si cercava e si era impegnati, in buona fede, a salvare il mondo ma piuttosto mentre si tentava di gonfiare i bilanci e i dividendi delle multinazionali del settore che attraverso rapaci operazioni di acquisizioni, di land grabbing, di dislocamento forzato delle popolazioni, di proprietà intellettuale, operazioni sfacciate di lobby, si assicuravano il controllo quasi esclusivo, egemonico e monopolistico del mercato agroalimentare.

E’ il caso del mercato globale dei semi controllato, dopo il recentissimo round di fusioni fra le maggiori multinazionali del settore, per oltre il 60% da solo quattro compagnie che detengono, in contemporanea, il 70% del mercato dei prodotti agrochimici, fra cui pesticidi e fertilizzanti. La corsa ai monopoli sta letteralmente strangolando il mercato imponendo la legge del più forte, dettando modelli di produzione, accaparrandosi la gran parte dei sussidi pubblici e inibendo, di fatto, l’emergere di modelli alternativi e sostenibili su ampia scala. Il controllo sui semi, primo anello della nostra catena alimentare, permette alle grandi multinazionali di dettare legge sui sistemi produttivi agricoli. E ad essere al centro delle attenzioni delle multinazionali sono, guarda caso, le varietà tradizionali resilienti, come quelle resistenti alla salinità, alla siccità e alla sommersione. Operazioni come queste prefigurano la classica beffa a seguito del danno: i colpevoli non solo non stati detenuti ma, lasciati a piede libero, stanno cercando di riorganizzarsi per guadagnare spazi nel modello economico del futuro.

Sussidi, e agevolazioni fiscali: sono le tasse dei cittadini a sostenere un sistema dalla produttività negativa e dai forti impatti ambientali

Il cibo prodotto in maniera industriale, trasportato lungo le estese e poco sostenibili filiere (in cui si perde il 30% del prodotto) risulta dannoso da molti punti di vista. Secondo i dati della FAO, un terzo del valore del prodotto va perso in costi sociali. Mentre è stato calcolato il valore globale della produzione alimentare a 2.800 miliardi di dollari, i costi ambientali sono stati calcolati a 3.000 miliardi di dollari, a cui ne vanno aggiunti altri 2.800 per costi legati alla perdita di benessere sociale e a conflitti causati dalla perdita di risorse naturali come suolo e acqua. Insomma, per ogni euro di cibo prodotto ne abbiamo già spesi 3. Sono questi alcuni dei cosiddetti costi nascosti che pagano i contribuenti.

Il sistema agricolo industriale ha dunque una produttività negativa, e non potrebbe sostenersi senza le enormi sovvenzioni pubbliche. I costi per la salute, l’ambiente e la società non vengono presi in considerazione e vengono relegati come esternalità che non arrivano a incidere sul prezzo finale dei prodotti. I cittadini di tutto il mondo stanno pagando di tasca loro miliardi di sovvenzioni che si trasformano in profitti per le stesse società. Lo scopo dell’attuale sistema, che non possiamo definire come sistema alimentare ma piuttosto come sistema industriale agricolo, non è quindi quello di garantire un’adeguata nutrizione e il benessere umano, ma quello di massimizzare i profitti di Big Food.

Una tendenza globale ma che vede l’Italia ancora una volta in prima fila. Secondo un recente rapporto della Food and Land Use Coalition, il pubblico elargisce più di 1 milione di dollari al minuto di sussidi agricoli globali, molti dei quali sono alla base della crisi climatica e della distruzione dell’ecosistema. L’idea che le sovvenzioni siano necessarie per fornire cibo a basso costo per sfamare la popolazione mondiale in crescita? Uno slogan vuoto e fuorviante. Il rapporto conferma infatti che il costo dei danni attualmente causati dall’agricoltura è superiore al valore del cibo prodotto. Cambiare destinazione ai sussidi per immagazzinare il carbonio nel suolo, produrre cibo più sano, contenere gli sprechi rappresenta non solo una necessità ma anche un’enorme opportunità, un vero volano di sviluppo economico.

Se la situazione globale non appare rosea, cosa accade in Italia dove gli eccessi di zelo portano spesso le nostre classi dirigenti ad essere più realiste del re? Secondo analisi realizzata dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, costruito sulla base dei dati contenuti nel primo Catalogo sussidi ambientali realizzato dal Ministero dell’Ambiente, nel nostro paese al sistema dei sussidi si affianca quello delle agevolazioni fiscali per attività che hanno un grosso impatto sull’ambiente e quindi sui cambiamenti climatici. Fra questi i fertilizzanti azotati, le acque minerali, l’energia elettrica consumata dalle utenze domestiche e dalle imprese agricole e manifatturiere, il gas metano per uso domestico, i prodotti fitosanitari inclusi insetticidi ed erbicidi. Iva agevolata, esenzioni, crediti di imposta sono, si rileva nell’analisi, una vera manna dal cielo per gli inquinatori visto che la quasi totalità dei sussidi dannosi per l’ambiente (più del 97%) è costituito da sconti fiscali (del valore stimato di 22 miliardi di euro, a fronte di 19 miliardi di sussidi diretti).

Il risultato di questo sistema di produzione, al netto dei soldi spesi dai contribuenti per finanziarlo? Secondo l’Ipcc tra il 25 e il 30% delle emissioni impattanti sono provocate dall’attuale sistema agroalimentare. Ma è un calcolo prudente. Secondo altre stime questa percentuale si attesterebbe intorno al 50%. Un calcolo non facile considerando tutti gli elementi che concorrono alla sommatoria: oltre all’agricoltura e all’allevamento concorrono al conteggio finale le pratiche di deforestazione, di trasporto, di trasformazione e confezionamento, di refrigerazione, di distribuzione e di spreco dello stesso cibo prodotto.

Conosciamo i colpevoli dell’attuale disastro ambientale eppure non solo continuiamo a far finta di niente ma con i nostri soldi di contribuenti finanziamo tutto il loro armamentario e siamo finanche pronti a pagare i costi dei danni provocati dai loro crimini.

Non si tratta solo di sistemi produttivi ma di una visione olistica che intende far evolvere la nostra relazione con la terra e con tutte le sue specie

Il modo in cui produciamo i nostri alimenti svolge un ruolo fondamentale nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e nell’adattamento ai cambiamenti climatici. La produzione alimentare industriale dominante – caratterizzata da sementi commerciali, uso di prodotti chimici, elevato consumo d’acqua, attrezzature agricole giganti energivore e un massiccio sistema di trasporto globale basato sui combustibili fossili – è molto vulnerabile ai cambiamenti climatici e contribuisce in modo significativo a questo fenomeno. La trasformazione dei prodotti alimentari, l’imballaggio, la refrigerazione a lunga distanza e i sistemi di infrastrutture di trasporto di massa contribuiscono all’uso dei combustibili fossili.  I terreni trattati con fertilizzanti chimici e svuotati di materia organica perdono la capacità di trattenere l’acqua, rendendo le aree agricole più vulnerabili a siccità e inondazioni mentre le politiche di globalizzazione economica aumentano l’impatto sull’ambiente attraverso modelli di consumo intensivo di risorse ed energia.

Possiamo dunque dire che l’agricoltura è una delle attività umane più vulnerabili ai cambiamenti climatici, perché si basa sul delicato equilibrio di molteplici servizi ecosistemici. Al contempo l’agricoltura può avere un ruolo importante quando si parla di soluzioni al cambiamento climatico. E’ in particolare l’agroecologia a rappresentare la base per la transizione. Una moltitudine di studi, compresi quelli di organismi internazionali come la FAO, riconoscono quanto un cambiamento di paradigma verso l’agricoltura agroecologica sia urgente e necessario, e rappresenti una soluzione alle crisi interconnesse del nostro tempo, non solo nel settore agricolo, ma anche in ambito economico e sociale, in particolare di fronte ai cambiamenti climatici.

Ma in che modo l’agroecologia può contribuire a mitigare i cambiamenti climatici?

Attraverso un approccio trasformativo, l’agroecologia rigenera la fertilità del suolo e altri processi ecologici e biologici degli ecosistemi, oltre a garantire il sostentamento delle comunità locali, riciclando i nutrienti e producendo quantità significative di cibo con un uso minimo di input esterni. I sistemi agroecologici sono progettati per rigenerare la biodiversità funzionale per migliorare la sostenibilità degli agroecosistemi fornendo servizi ecologici, come la regolazione biologica dei parassiti, il ciclo dei nutrienti, la conservazione dell’acqua e del suolo.

La stabilità e la sostenibilità sono aumentate grazie alle funzioni reciprocamente vantaggiose che si trovano in natura attraverso la biodiversità, con effetti benefici sull’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, come le tecniche di diversificazione delle colture sviluppate dagli agricoltori tradizionali, che rappresentano un’importante strategia di resilienza. La biodiversità delle piante, degli animali e dei microrganismi del suolo, è dunque essenziale per garantire il necessario equilibrio dei fattori che rende gli agroecosistemi più resistenti ai cambiamenti climatici. Come sostiene Vandana Shiva, “la biodiversità aumenta la resilienza, restituendo più carbonio al suolo, e migliorando la capacità del terreno di sopportare la siccità, le inondazioni e l’erosione. Ecosistemi meno diversificati o basati sulla monocoltura sono estremamente vulnerabili e non sostenibili”.  Non solo abbiamo il diritto e il dovere di porre un freno all’ondata di criminalità organizzata contro il pianeta e i suoi abitanti, ma abbiamo anche le controprove che la dittatura dell’agribusiness è tutt’altro che necessaria alla nostra sopravvivenza.

Le soluzioni sono a portata di mano ma serve una svolta politica per dare impulso alla fase di transizione

Le alternative al sistema produttivo industriale esistono e vengono già praticate a livello locale con ottimi risultati. Sono alternative che si basano su un approccio agroecologico, sulla conservazione della biodiversità, sulla promozione dell’agricoltura biologica, sulla valorizzazione delle filiere corte con un approccio tendente all’equità e alla giustizia sociale. Anche il mito della scarsa produttività, perpetrato dalla stessa industria, è oramai stato dismesso. Secondo i dati della FAO, pur utilizzando il 75 per cento del terreno totale, l’agricoltura industriale basata su monocolture ad alta intensità di combustibili fossili e ad alta intensità chimica produce solo il 30 per cento del cibo che mangiamo, mentre le piccole aziende agricole, che utilizzano il 25 per cento della terra, forniscono il 70 per cento del cibo.

Le soluzioni agroecologiche al cambiamento climatico si basano su un approccio sistemico, su una profonda comprensione dei processi di trasformazione degli esseri viventi, e comportano trasformazioni a livello politico, sociale ed economico. Sistemi agricoli multifunzionali e diversificati e sistemi alimentari diversificati a livello locale sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’epoca di cambiamenti climatici. Una rapida transizione globale verso tali sistemi è un imperativo sia per mitigare i cambiamenti climatici che per garantire la sicurezza alimentare.

Come affermato nella “Dichiarazione dei piccoli produttori alimentari e delle organizzazioni della società civile” al Secondo Simposio Internazionale di Agroecologia: “L’agroecologia non può essere intesa come un semplice insieme di tecniche e pratiche produttive. L’agroecologia è uno stile di vita dei nostri popoli, in armonia con il linguaggio della natura. È un cambiamento di paradigma nelle relazioni sociali, politiche, produttive ed economiche dei nostri territori, per trasformare il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo e per ripristinare una realtà socio-culturale devastata dalla produzione alimentare industriale. L’agroecologia genera conoscenza locale, costruisce la giustizia sociale, promuove identità e cultura e rafforza la vitalità economica delle aree rurali e urbane”.

L’agroecologia può rappresentare dunque una soluzione sistemica, un pilastro portante del cambio di paradigma produttivo necessario. La politica deve allora ammettere i propri errori evitando di continuare a giustificare e proteggere i colpevoli del disastro ambientale e sociale e agevolando invece la transizione attraverso la valorizzazione delle esperienze locali. La sfida dello sviluppo sostenibile nel XXI secolo consiste proprio nel riorientare i nostri sistemi agricoli e alimentari per renderli non solo più conformi alle esigenze nutrizionali e sanitarie di una popolazione mondiale in crescita, ma anche sostenibili dal punto di vista ambientale e finanziario.

Sono molte le realtà locali che, in attesa di cambiamenti sistemici, hanno intrapreso la via della transizione. Solamente nel nostro paese circa 70 sindaci hanno deciso di porre un freno alla prepotenza dell’agricoltura industriale stringendo le regolamentazioni nei loro comuni mentre l’esperienza dei biodistretti si rifà esplicitamente a quella agroecologica. La caratteristica in comune di questo tipo di iniziative locali è proprio l’approccio sistemico. L’agricoltura non rappresenta più una pratica produttiva isolata dal resto del mondo che circonda i campi. Attraverso la cura del suolo, delle falde acquifere, della produzione agricola, dell’aria e dell’estetica del paesaggio, le comunità  stanno riscoprendo il valore di paesaggi esteticamente attraenti, della ristorazione di qualità, della valorizzazione delle tradizioni locali e della salvaguardia del tessuto sociale. Un processo di rigenerazione che può alimentare, a sua volta, nuovi circuiti di economia locale e sostenibile, come è il caso del turismo rurale. E’ a partire da un modo diverso di fare agricoltura che si può non solo porre un argine ai cambiamenti climatici ma creare un mondo più pulito, più equo più accogliente anche per le future generazioni.


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