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Il cibo artificiale è nemico della transizione

Prefazione di Vandana Shiva

La spinta delle Lobby verso il cibo sintetico

Un menu impossibile: il cibo artificiale alla conquista delle nostre tavole


Il cibo artificiale è nemico della transizione

Come sanare la nostra relazione con il cibo nell’era dell’alimentazione artificiale? In risposta alle crisi del nostro sistema alimentare stiamo assistendo all’ascesa di soluzioni tecnologiche che mirano a sostituire i prodotti animali e altri prodotti alimentari di base con alternative prodotte in laboratorio. I sostenitori del cibo artificiale stanno essenzialmente reiterando la vecchia e fallimentare retorica secondo cui l’agricoltura industriale è indispensabile per nutrire il mondo. Il cibo vero e ricco di nutrienti sta gradualmente scomparendo, mentre il modello agricolo dominante sta esacerbando i cambiamenti climatici e provocando un aumento delle malattie croniche. Eppure, è soprattutto dai piccoli agricoltori che proviene il nostro cibo. Il «vero» cibo non nasce in laboratorio, ma proviene da fattorie biodiverse che si prendono cura della terra adottando il modello dell’agricoltura rigenerativa. Creare un sistema agricolo senza animali non è la risposta alla crisi climatica. Rappresenta una forma di violenza che li condanna al pericolo di estinzione. Invece di escludere del tutto gli animali, è importante capire la differenza tra i due sistemi: mentre i piccoli agricoltori integrano gli animali come diversità vitale in un agro-ecosistema funzionale e non torturano e sovrappopolano i pascoli, gli allevamenti intensivi sono caratterizzati da un numero fenomenale di capi stipati in condizioni deplorevoli che, inoltre, contribuiscono enormemente alle emissioni di gas serra.

È possibile e sano avere una dieta completa e nutriente basata su vegetali biodiversi, senza bisogno di diventare sostenitori dell’impero degli alimenti artificiali. I grandi magnati degli allevamenti intensivi sono infatti gli stessi che ora investono nella carne artificiale. Queste soluzioni non rappresentano valide alternative. Sono solo ulteriori fonti di profitto per gli stessi soggetti e sottraggono potere politico agli agricoltori rigenerativi e alle comunità locali.

Queste modalità negano le essenziali relazioni simbiotiche tra esseri umani, piante, animali e microrganismi e, nella stessa ottica, negano anche il loro potenziale per mantenere e rigenerare la rete della vita. La trama della vita è la trama del cibo. Non possiamo separare il cibo dalla vita. Allo stesso modo, non possiamo separare noi stessi dalla Terra. Il cibo non è una merce, non è «roba» messa insieme artificialmente nei laboratori. Il cibo porta con sé i contributi di tutti gli esseri viventi che formano la rete alimentare.

Le soluzioni alle nostre crisi globali esistono già. Derivano dalla costruzione di culture di interconnessione e rigenerazione e dalla guarigione delle nostre relazioni con il cibo, la natura e le comunità. È necessario prendere coscienza di queste connessioni che portano con sé l’opportunità di rigenerare la terra, la nostra salute, le nostre economie del cibo e le culture ad esso legate attraverso un’agricoltura reale che si prende cura della Terra e delle persone.

Occorre dunque lavorare attivamente per rinnovare e rigenerare il Pianeta partecipando ai processi ecologici di reciprocità e ripristinando la biodiversità. Perché questo accada, l’atto di alimentarsi deve tornare ad essere un atto ecologico, in modo che le false soluzioni proposte dai sostenitori degli alimenti artificiali, che non servono minimamente a contrastare l’industria agroalimentare orientata al profitto, non creino ulteriori disconnessioni e ulteriori crisi.

Vandana Shiva, Presidente di Navdanya International


La spinta delle Lobby verso il cibo sintetico

Il cibo artificiale è una tendenza sempre più comune che consiste nello sviluppo di nuovi prodotti alimentari sintetici, ultra processati, attraverso l’utilizzo delle più recenti tecnologie in campo di biologia sintetica, intelligenza artificiale e biotecnologia. Questi nuovi alimenti cercano di imitare e rimpiazzare prodotti di origine animale, additivi alimentari e quegli ingredienti considerati costosi, rari o causa di questioni etiche sociali (come nel caso dell’olio di palma). Aziende biotecnologiche e giganti dell’agroalimentare considerano l’ingresso nel promettente mercato del consumo “green” come un’opportunità,  ed è per questo che la vendita di questi prodotti è indirizzata a nuove generazioni di eco-consumatori sempre più critici nei confronti della triste realtà che circonda l’industria del cibo. Di conseguenza, hamburger e salsicce non a base di carne, così come analoghi del formaggio, prodotti caseari, pesce e altri, stanno invadendo il mercato,  dalle catene di fast food ai negozi di alimentari locali.

Sebbene vengano pubblicizzati come ‘ecologici’, ‘sani’ e ‘sostenibili’, questa categoria di prodotti non potrebbe essere più lontana da questa descrizione in quanto raramente affrontano il problema posto dall’agricoltura industriale e le conseguenze su ambiente e salute.  Conseguenze che sono largamente attribuibili alla stessa cerchia di imprenditori che finanziano lo sviluppo dell’industria biotecnologica. La realtà è che questi prodotti rappresentano la prossima generazione di cibo spazzatura ultra processato e la loro produzione non fa altro che consolidare gli attuali modelli di agricoltura industriale. Questo perché dipendono da  filiere di produzione globalizzate, prodotti agrochimici, OGM, monocolture e addirittura dal tradizionale settore delle produzioni animali. In altre parole, il cibo sintetico sta velocemente diventando l’arma attraverso la quale i giganti del cibo mantengono potere e profitti senza dover affrontare le conseguenze della devastazione ecologica, del peggioramento della salute umana e dell’aggravarsi del cambiamento climatico.

Una delle principali differenze tra il convenzionale cibo spazzatura e il nuovo cibo sintetico si trova nell’uso di tecnologiche innovative come la biologia sintetica e l’ingegneria genetica. La biologia sintetica è un tipo di biotecnologia all’avanguardia capace di creare organismi e microorganismi completamente nuovi attraverso modificazione genetica o progettazione di strutture interne di un organismo così da riconfigurarne la genetica. Inserendo nei microorganismi parti di DNA proveniente da altri organismi, o riconfigurandone l’informazione genetica interna, queste nuove tecnologie fanno sì che microorganismi, cellule e altre forme di materiale genetico inizino una processo di ‘fermentazione’ e riproduzione creando ingredienti completamente sintetici. L’utilizzo strategico del termine  ‘fermentazione’, nell’ambito della biologia sintetica, crea una falsa analogia tra forme tradizionali naturali di fermentazione microbica e le nuove biotecnologie artificiali.

Queste tecnologie vengono utilizzate da aziende come Beyond Meat, Motif Foodworks, Ginkgo Bioworks (creatrice di microbi ad-hoc), BioMilq (produttrice di latte materno coltivato in laboratorio), Nature’s Fynd (che offre prodotti alternativi a carne e latte cresciuti dai funghi), Eat Just (produttrice di sostituti delle uova a base di proteine vegetali), Perfect Day Food (creatrice di prodotti lattiero-caseari coltivati in laboratorio) o NotCo.

Aziende come la Beyond Meat e Impossible Foods usano una sequenza di DNA codificante, proveniente da semi di soia o pisello, per creare un prodotto che ha le stesse caratteristiche organolettiche della carne vera. Anche imitazioni di formaggi e altri alimenti lattiero-caseari stanno iniziando a comparire. Un esempio è rappresentato dell’azienda Formo che sfrutta la fermentazione sintetica allo scopo di sintetizzare proteine del latte impiegate nella produzione di mozzarella e formaggi di origine non animale.

Gli additivi che vengono aggiunti a questi prodotti fanno tuttora affidamento sull’estensiva lavorazione tradizionale delle colture OGM. E’ il caso, per esempio, di Impossible Burger: creato quasi esclusivamente utilizzando grano, mais, soia, cocco e patate prodotti industrialmente, con l’aggiunta di ingredienti risultato di bioingegneria. Proteine e carboidrati ottenuti da colture convenzionali sono estratti chimicamente, cotti ed estrusi utilizzando macchinari che li mescolano e rimodellano in una forma simile alle fibre muscolari, permettendo così all’azienda produttrice di imitare, in maniera convincente, una gamma di prodotti a base di carne.

Carne e prodotti lattiero-caseari sintetici provenienti da coltura cellulare

Carne e prodotti lattiero-caseari coltivati in laboratorio vengono commercializzati come l’ennesima alternativa ai prodotti di origine animale e sono molte le aziende che investono nelle colture cellulari o nella ‘fermentazione’ del cibo a partire da vere cellule animali. Nel caso della carne coltivata, il tessuto ottenuto in vivo dai bovini viene combinato con cellule staminali e cresciuto in laboratorio per trasformarsi in fibre muscolari. Una volta ottenuto un numero sufficiente (all’incirca 20.000), queste fibre muscolari vengono colorate, macinate, mischiate con del grasso e modellate a forma hamburger.

Un esempio è quello di Upside Foods (precedentemente nota come Memphis Meats) che produce carne sfruttando cellule animali auto-riproducenti. Alla base di questo approccio ci sarebbe il tentativo di eliminare il bisogno di allevare e macellare un alto numero di animali, riducendo preoccupazioni di tipo etico ed ecologico lungo la filiera di produzione. Anche se la carne coltivata in vitro non è ancora commerciabile, aziende come Upside Foods stanno investendo somme considerevoli in ricerca e sviluppo per far sì che questi prodotti, a lungo termine, possano rappresentare una valida alternativa a buon mercato, alla carne commerciale.  L’azienda canadese Better Milk, per esempio, sta investendo ingenti capitali nella produzione di latte vaccino partendo da cellule delle ghiandole mammarie bovine.

L’idea che migliorare il cibo creato in laboratorio farà di questo un’opzione economicamente conveniente è tutto ancora da vedere. Un articolo pubblicato da  ‘the Counter’ riflette sui limiti posti dal potenziale trasformativo di questa tecnologia emergente, sottolineando innumerevoli ostacoli che le aziende, che si occupano di carne coltivata in laboratorio, devono affrontare. Attraverso una rigorosa analisi dei dati scientifici, questo articolo dimostra che la carne coltivata in laboratorio dà luogo a molte  inefficienze e problemi di adattabilità, rappresentati dalla necessità di utilizzare macchinari sofisticati, limitazioni strutturali derivate dal metabolismo cellulare e immunità contro contaminanti esterni, oltre a richiedere una serie di processi complessi. Questi fattori contribuiscono alla mancanza di competitività a livello di prezzi se si paragonano ai prodotti contenenti carne convenzionale a cui vogliono sostituirsi. Questo perché la produzione di carne coltivata è nettamente inferiore a quelle ottenuta attraverso la macellazione convenzionale. Specialmente quando il numero delle strutture necessarie alle colture cellulari non è mai stato  disponibile.

Chi c’è dietro il cibo artificiale e chi ne trae vantaggio?

Negli ultimi due anni, insieme ad una inarrestabile comparsa di nuove startup, il mercato delle alternative vegetali (detto anche cibo ‘plant based’) e dei prodotti sintetici ha registrato una rapida crescita grazie al sostegno finanziario aumentato esponenzialmente nel 2020. The Good Food Institute, una lobby che appoggia l’adozione di alternative ai prodotti origine animale, ha riportato che negli Stati Uniti il mercato ‘plant based’ e già cresciuto da 4.9 miliardi di dollari nel 2018 a 7 miliardi di dollari nel 2020, con una crescita complessiva delle vendite, in dollari, del 43% negli ultimi due anni.  Analogamente, anche il mercato della carne ‘plant based’ è in forte espansione, avendo raggiunto il valore di 1.4 miliardi di dollari con una crescita del 72% nel 2020. Beyond Meat è stato uno dei titoli azionari più caldi del 2019 registrando una crescita del 859% durante i primi tre mesi di vita.

L’industria della biologia sintetica non è certo da meno in quanto ha raggiunto i 12 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni e si prevede che il suo valore duplici entro il 2025, raggiungendo 85 miliardi di dollari nel 2030. Aziende specializzate in questo settore hanno aumentato di sei volte il loro valore negli ultimi dieci anni.

E’ evidente come l’industria agroalimentare tragga profitto da questo mercato redditizio in rapida espansione. Di conseguenza, non dovrebbe sorprendere che molti colossi dell’industria della carne come Tyson Foods, Cargill, Nestlé e Maple Leaf Foods stiano investendo in questo fiorente mercato. Per di più, grandi investitori del settore delle tecnologie digitali, come il fondatore di Microsoft Bill Gates e Jeff Bezos di Amazon, si sono uniti a startup e aziende biotecnologiche che perseguono innovazione in questo settore, fornendo un importante sostegno finanziario.  Bill Gates da solo ha già investito 50 milioni di dollari in Impossible Foods e finanziato Beyond Meat, Ginkgo Bioworks, BioMilq, Motif Foodworks, C16 Biosciences e Memphis Meats (diventata Upside Foods) attraverso il suo fondo di investimenti chiamato ‘Breakthrough Energy Ventures’.

Altre note startup finanziate dal Bill Gates includono- Eat Just (produttrice di sostituti delle uova a base di proteine vegetali), Perfect Day Food (che crea prodotti lattiero-caseari in laboratorio) e NotCo (produttrice di cibo ‘plant based’ utilizzando IA), giusto per citarne alcune.

Visto il grande successo dell’industria ‘plant based’, non c’è da stupirsi se aziende come la Bayer, che si occupa di miglioramento genetico delle piante, riconosca in questo mercato una grande opportunità di investimento ed espansione. Come afferma Bob Reiter, capo di ricerca e sviluppo della divisione Bayer Crop Science, in riferimento alle aziende produttrici di carne vegetale: “Stanno ottenendo diversi tipi di colture e questo potrebbe rappresentare un’opportunità anche per noi che siamo un’azienda che si occupa di miglioramento genetico delle piante”.

Una scelta ecologica o un lupo travestito da agnello?

Molti studi stanno mettendo in discussione la presunta sostenibilità di questa industria che, ad oggi, comprende una miriade di nuove startup ‘green’.  Non c’è da stupirsi se il fenomeno del cibo sintetico cresce di pari passo con questioni di origine etica relative all’industria della carne e lattiero-casearia. Appena l’industria agroalimentare si è sentita minacciata dall’apatia dei suoi consumatori, ha cercando di sfruttare il nuovo mercato, fatto di consumatori consapevoli in cerca di alternative eco-friendly, per evitare di perdere profitti. Per questo motivo, la promozione di cibo sintetico non è altro che un’ingegnosa tattica di mercato atta a ridirigere i guadagni verso le stesse vecchie aziende facendo passare le distruttive tecnologie della Rivoluzione verde, combinate con nuove biotecnologie, per ‘alternative sostenibili’.

Il potenziamento del modello di produzione industriale diventa evidente se si guarda agli ingredienti che compongono i cibi sintetici. Composti primariamente da piselli, patate, soia, cocco e mais coltivati in maniera tradizionale, questi alimenti fanno affidamento su trasformazioni intense, monocolture, prodotti agrochimici, OGM, deforestazione e una filiera globale estremamente inquinante.

Eppure le aziende continuano a sostenere che la produzione di carne ‘plant base’ richieda meno acqua, meno terre e produca meno emissioni di gas serra rispetto alla carne di origine animale eliminando, allo stesso tempo, ogni timore circa il benessere animale. In questo modo aggirano deliberatamente le conseguenze dannosi della filiera di produzione industriale dalla quale dipende la produzione dei loro stessi prodotti.

Per giunta, la carne prodotta in laboratorio richiede un numero elevato di bioreattori e l’utilizzo di attrezzature di plastica sterile monouso. Per adeguare la produzione all’attuale consumo di carne, ad esempio, gli impianti di produzioni dovrebbero aumentare di decine di milioni con un maggiore consumo di plastica e di energia richiesta; al  contempo dipendendo ancora da modelli di agricoltura industriale globalizzata e filiera di produzione tradizionale.

Va considerato che per la messa in funzione dei bioreattori serve un elevato numero di nutrienti che permette ad una cellula di crescere e riprodursi. Data la limitata produzione di singole formulazioni di aminoacidi adatti a questo tipo di colture,  sarebbe vantaggioso  ricavare il completo profilo aminoacidico, necessario alla crescita cellulare, dalla soia. Questo però non farebbe altro che aumentare la potenza distruttiva della coltivazione della soia.

In maniera ironica ed agghiacciante al tempo stesso, anche altri costituenti del brodo di coltura cellulare derivano direttamente dall’attuale allevamento industriale. Alcuni di questi provengono da sangue di feto di vitello ottenuto macellando bovine gravide. Come anche cellule staminali necessarie alla riproduzione di cellule in vitro. Sorge spontaneo chiedersi se la crescita di carne coltivata in laboratorio sia possibile senza macellazioni di massa di feti bovini. E ancora, può la carne coltivata in vitro essere la soluzione al benessere animale e al degrado ambientale se è completamente dipendente da ingredienti derivati dalla produzione industriale di carne bovina? La raccapricciante realtà sembra provare il contrario.

Analoghi della carne e carne coltivata in vitro producono emissioni di carbonio maggiori di quello che siamo portare a credere. Un recente studio ha dimostrato come l’energia derivata da combustibili fossili, richiesta per la produzione di carne in vitro, non è sostenibile perché  sorpasserebbe di molto quella emessa da allevamenti suini e avicoli.

L’energia richiesta per la produzione di cibo sintetico è considerevole e sono diverse le fasi di produzione in cui è richiesto un elevato apporto di energia; tra queste la messa in azione dei bioreattori, i controlli di temperatura, di aerazione e i processi di miscelazione. Pertanto, sulla base di questi elementi, il settore non può di certo affermare che la produzione di carne sintetica sia una pratica intrinsecamente più sostenibile rispetto a quella tradizionale. Studi come questo sottolineano che l’ampliamento della produzione di carne sintetica non condurrà verso una società a zero emissioni di carbonio, soprattutto se si considera la portata degli attuali livelli di consumo, a cui questo nuovo settore sta cercando di sostituirsi.

Il cibo ‘plant based’ è più sano? Non se è ultra processato

E’ ormai noto come la lavorazione industriale riduca le proprietà nutritive del cibo rendendolo nocivo alla salute umana e, secondo un recente rapporto, l’ultima generazione di cibo spazzatura di origine sintetica non fa eccezione. Per permetterne la produzione, proteine proveniente da colture intensive come quelle della soia, del pisello e della patata vengono estratte chimicamente, aggiunti aromi, additivi alimentari e, a rendere il tutto più preoccupante, vengono mischiati ingredienti artificiali geneticamente modificati per cercare di ottenere un gusto e consistenza simili a quelli dei veri prodotti animali. Rispetto al cibo naturale, quello ultra processato contiene livelli di sodio, di grassi ed esaltatori di sapidità elevati che ne aumentano il gusto, questo fa sì che si possa classificare come cibo spazzatura.

Inoltre, i cibi ultra processati contengono ingredienti raffinati che mancano di nutrienti normalmente presenti nei prodotti di origine animali, come lo zinco, il ferro e la vitamina B12. I nutrienti e altri ingredienti fortificanti aggiunti alla carne sintetica in un secondo momento non vengono assorbiti in modo altrettanto efficace rispetto ai prodotti naturali che non hanno subito trasformazioni industriali, causando così interferenze dannose con altri nutrienti. Il nostro corpo, pertanto, trae meno benefici da questi alimenti che non dovrebbero essere considerati parte di una dieta nutriente ed ecocompatibile.

Anche la sicurezza alimentare di questi nuovi ingredienti e additivi sta suscitando grande preoccupazione. Ad esempio, per far ‘sanguinare’ l’Impossible Burger come fosse di carne vera, viene aggiunto un complesso eme ottenuto sinteticamente dalla leghemoglobina di soia e colorato con lievito geneticamente modificato.  La scelta di questo ingrediente brevettato da poco è a dir poco controversa. Il Center for Food Safety sostiene che l’Agenzia Americana per gli Alimenti e i Medicinali (FDA), nel 2019, abbia condotto verifiche inadeguate prima dell’approvazione dell’additivo e, a seguito di una sperimentazione animale durata pochissimo, sono state riscontrate diverse potenziali reazioni avverse come aumento del peso corporeo, cambiamenti ematici indicativi di stati infiammatori o nefropatie, interruzione del ciclo riproduttivo e possibili segni di anemia. Malgrado ciò, i prodotti a marchio Impossible Food, contenenti il gruppo eme geneticamente modificato, sono presenti sugli scaffali di molti supermercati americani come l’esempio lampante della mancanza di test e regolamentazione per questi nuovi prodotti e tecnologie.

Il glifosato, un pesticida altamente tossico, è stato ritrovato nei prodotti Impossible Burger in quantità sufficienti da indurre una serie di effetti negativi sulla salute. Il che senza considerare effetti sinergici che il pesticida potrebbe avere con tutta una serie di additivi tossici, aggiunti dalle aziende per mascherare i sapori. A questo vanno aggiunti gli effetti ancora sconosciuti che gli additivi risultato di tecnologie di biologia sintetica hanno sulla salute umana.

Brevetti vantaggiosi

Il cibo sintetico rappresenta l’ennesimo sistema a scopo di lucro utilizzato da miliardari e società per azioni, per sfruttare al massimo tecnologie proprietarie e aumentare il controllo sulle risorse globali. Questo si riflette nell’incessante caccia delle aziende a brevetti di qualsiasi tipo: da nuovi processi di biologia sintetica a ingredienti geneticamente modificati come la leghemoglobina di soia o processi di testurizzazione delle proteine fino a brevettare l’utilizzo di materiale genetico come materia prima. Come dimostrato nel report ‘Gates to a Global Empire’, pubblicato da Navdanya International, 27 brevetti sono stati assegnati ad Impossible Foods, e più di 100 brevetti di prodotti pensati per sostituire la carne, dal pollo al pesce, sono in attesa di essere sperimentati.

Il sistema di brevetti che sta alla base del movimento del cibo sintetico, considera animali e natura come elementi usa e getta, facilmente sostituibili da tecnologie di laboratorio più efficienti. Questo modo di pensare è estremamente pericolo perché riduce gli animali a mera merce all’interno del sistema di produzione, ignorando completamente la relazione che l’uomo ha con l’ambiente e aumentando il divario tra noi e la natura, tra il cibo e la vita.

Cedere il controllo del cibo ad una manciata di multinazionali non solo ci rende sempre più dipendenti da loro, ma può portare dannose conseguenze sul sistema agroalimentare locale ed erodere la sovranità alimentare degli agricoltori biologici.

L’appetito internazionale per il cibo ultra processato

Oltre ad aver invaso i nostri piatti e la nostra dieta, il cibo sintetico sta scalando le vette delle amministrazioni globali.  E’ apparso lampante sia all’ultimo Vertice Mondiale sui Sistemi Alimentari (UNFSS) che alla Conferenza sui cambiamenti climatici (COP26) delle Nazioni Unite. Entrambi gli eventi sono vetrine utilizzate dai giganti del settore agroalimentare per rivelare le loro vere intenzioni – vale a dire mantenere l’attuale sistema invariato. Come anticipato, entrambe i vertici hanno rappresentato un’ennesima occasione persa per affrontare temi come gli squilibri di potere all’interno del sistema alimentare e pratiche agricole sostenibili, come l’agroecologia, relegate ad un ruolo marginale. Questo ha scatenato reazioni negative da parte delle associazioni ambientaliste e organizzazioni della società civile.

L’intenzione di mantenere invariata la situazione, facendo affidamento su un modello di agricoltura industriale ormai fallito permettendo agli attori principali di continuare a dettare le condizioni, è stata chiaramente espressa nei temi e nelle proposte durante entrambe gli eventi internazionali. A riprova di quando affermato, sia durante l’UNFSS che il COP26, c’è stata un’esplicita promozione di cibo ‘plant based’ artificiale e ultra processato, e si è parlato di successo nella  ‘diversificazione proteica’ e della ‘dieta sostenibile’. Durante il COP26 il “Plant Based Treaty” è stato promosso e sostenuto dai partecipanti, e durante l’UNFSS iniziative simili sono state promosse all’Action Track 2 guidata dalla Nestlé, dalla Danone e dalla controversa organizzazione EAT.

Quale futuro per il nostro cibo?

E’ estremamente pericoloso quando questi tipi di discorsi vengono trattati a livello di amministrazioni globali. Specialmente quando stanno a significare un ulteriore spostamento di attenzione e risorse lontano dagli agricoltori biologici e i mercati locali, verso una manciata di aziende biotecnologiche. Nonostante i sostenitori di questo tipo di cibo dichiarino che la disponibilità di alternative sintetiche può essere una soluzione alla salute animale e a molte delle crisi attuali, l’etichetta ‘plant based’ significa ben poco se basata su un modello industriale, di monocolture, di OGM, pesticidi e altre pratiche agricole distruttive che portano alla perdita della biodiversità, alla degradazione ecologica e al peggioramento della salute umana.

Il cibo sintetico non è altro che una soluzione ingannevole che punta a rimpiazzare alcuni prodotti senza sfidare i poteri che sostengono il modello agricolo aziendale. Inoltre, trascura completamente le soluzioni offerte dal movimento di agricoltura rigenerativa negando totalmente l’influenza che piccoli produttori e comunità del cibo hanno sul sistema alimentare. Questo atteggiamento spiega perché gli hamburger della Beyond Meat faranno presto la loro comparsa nel menu vegetariano di McDonald quando invece ci si dovrebbe focalizzare di più sulla rigenerazione dell’agricoltura e sul cambiamento del sistema che protegge la natura e la salute delle persone.

Quello di cui abbiamo bisogno è “cibo vero”

In fin dei conti, il cibo sintetico e artificiale, distruggono la nostra connessione con la natura e, così facendo, si ignora completamente il ruolo che i processi naturali e le leggi ambientali hanno nella produzione di cibo naturale. Cercando di convincerci di non far parte dei processi ecologici della natura, queste nuove tecnologie verranno utilizzate dalle aziende per aumentare il controllo sul cibo e sulla salute umana, accelerare il collasso delle economie alimentari locali e distruggere del tutto la democrazia alimentare. La vera soluzione alla crisi ambientale e alla salute dovrebbe basarsi sul rinnovamento e la rigenerazione del pianeta attraverso l’utilizzo di processi naturali quali le coltivazione agro-ecologiche e rigenerative.

Contrariamente a quanto sostenuto dalle aziende agroindustriali e dalle aziende che sfruttano tecnologie alimentari, il cibo non può essere ridotto ad un mero prodotto assemblato meccanicamente e artificialmente in laboratorio o all’interno di  stabilimenti. Il cibo è la valuta di scambio della vita e rappresenta il contributo di ogni essere vivente durante tutti i suoi stadi di produzione. Affermare il contrario sarebbe come negare il sapere dei popoli autoctoni e le culture pastorali che si sono evoluti nei secoli al fianco dei diversi ecosistemi per rigenerare la biodiversità e contribuire alla diversità dei sistemi agricoli.

Animali, esseri umani e natura hanno sempre avuto un rapporto simbiotico e interdipendente che, a sua volta, rigenera tutti i sistemi alla base della vita. Questa sinergia è di vitale importanza al rinnovamento della fertilità del suolo, alla creazione di un habitat di biodiversità e al rinnovamento dei cicli terrestri di acqua, carbonio e altri nutrienti.  Mentre le preoccupazioni relative all’industria della carne sono legittime, integrare gli animali in un sistema agro-ecologico diversificato offre un’alternativa valida ad un sistema agricolo basato sullo sfruttamento e la distruzione dell’ambiente. Gli animali hanno da sempre una funzione centrale all’interno del sistema agro-ecologico: nutrendosi di erba, parassiti ed erbe infestanti, fertilizzano il terreno migliorano la biodiversità a tutti i livelli e aiutando ad imprigionare il carbonio nel suolo. In una relazione simbiotica ed equilibrata con piante, suolo ed essere umani, gli animali hanno ricoperto un ruolo centrale nella cultura e nell’agricoltura per millenni, contribuendo molto più che con la semplice produzione di carne.

D’altro canto, con la crescita di sistemi di allevamento intensivo all’interno dei CAFO (Concentrated Animal Farm Operations), gli animali sono costretti ad un’alimentazione forzata basata su cereali e soia provenienti da colture industriali. Questo contribuisce all’aumento delle emissioni dei gas serra, causando un maggiore rilascio di metano e l’inquinamento dell’aria e delle fonti idriche. E’ importante sottolineare come questi due sistemi non siano assolutamente simili, in quanto il consumo di carne non rappresenta, di per se, il problema, piuttosto il modello di produzione industriale, di pari passo con l’agricoltura industriale, è responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra, della sofferenza animale e della degradazione ambientale. Pertanto, la reale soluzione non sta nella creazione di alternative alimentari, ma nel comprendere i bisogni degli ecosistemi di cui facciamo parte recuperando la nostra connessione con la natura.

Il cibo naturale, prodotto attraverso l’agricoltura tradizionale, è il risultato diretto della cura del territorio, degli animali e dei nostri simili,  e celebra la connessione tra cibo e vita. Protegge la vita di tutti gli essere umani del pianeta Terra nutrendo la nostra salute e, al tempo stesso, il nostro benessere. Il cibo artificiale è invece la diretta manifestazione di anni di imperialismo e colonizzazione alimentare che negano i diversi saperi sul cibo, la cultura alimentare e la biodiversità della Terra e i suoi ecosistemi.

La speranza non va riposta in innovazioni tecnologiche come il cibo sintetico prodotto in laboratorio, che considera la natura come un sistema morto senza opportunità di miglioramento, ma nella partecipazione e rinnovamento dei processi naturali. Quello che mangiamo, come lo coltiviamo e come lo distribuiamo è una questione centrale alla sopravvivenza della specie umana e degli altri esseri viventi che costituiscono l’ecosistema. Quando coltiviamo utilizzando la conoscenza vera di come prenderci cura della Terra e della sua biodiversità e quando ci nutriamo di cibo naturale, alimentiamo non solo la biodiversità della natura, ma la nostra cultura e la nostra flora intestinale partecipando all’economia viva e reale che porta al benessere di tutti. Gli agricoltori e coltivatori di tutto il mondo stanno già preservando e sviluppando le loro terre e i loro semi attraverso la pratica agro-ecologica, nutrendo le loro comunità con cibo sano e nutriente e al tempo stesso rigenerando il pianeta.

Translation kindly provided by Francesca Castri


Un menu impossibile: il cibo artificiale alla conquista delle nostre tavole

Un piatto di riso fortificato Golden Rice come prima portata, un secondo a base di Impossibile Burger, un contorno di mozzarella sintetica con verdure sviluppatesi da semi geneticamente modificati. Certo, cercare di vendere un menù del genere non sembra veramente facile. Ma forse, se si spiegasse che la composizione di tale menù è necessaria a tutelare l’ambiente e che è anche benefica per la nostra salute, ecco, in questo caso, forse ci sarebbero più persone disposte ad acquistarlo e ingerirlo. E magari più governi disponibili a finanziare la ricerca privata sull’alimentazione artificiale. Insomma, un menù sì costruito in laboratorio ma ecologico, amico del pianeta e di tutti i suoi abitanti. Una narrazione senz’altro accattivante. Ma si tratta di una narrazione realistica o ci troviamo di fronte all’ennesima operazione di greenwashing utile a nascondere, dietro una patina verde fosforescente, i soliti interessi?

Una cosa si può dire con sicurezza: quella dello sviluppo dell’industria del cibo artificiale, come miglior risposta alle sfide ambientali, è una risposta di parte. E la parte in questione è quella dell’industria dell’alimentazione globale che cerca di rimodulare la sua offerta per intercettare una platea di consumatori sempre più green. Nella consapevolezza che molti di questi consumatori non sono ben informati sull’origine degli attuali disastri ambientali riconducibili, in buona parte, allo stesso club di affaristi che supporta oggi lo sviluppo dell’industria biotech. Ben lungi dal voler ammettere i propri errori e contribuire ai processi di rigenerazione, sembra proprio che Big Food abbia trovato il modo di imporre l’ennesimo set di soluzioni tecnologiche a una serie di problemi innescati dallo stesso modello di agribusiness industriale su cui poggia. Un’operazione commerciale da miliardi di dollari.

Ma se anche fossimo già arrivati al punto di non avere altre soluzioni che non quelle di affidare la nostra alimentazione al cibo artificiale, e per questo dovessimo essere costretti a pagare profumatamente le multinazionali del settore, rimane irrisolta un’altra obiezione: molti degli alimenti sintetizzati nei laboratori si basano su materia prima derivante da un processo agricolo industriale caratterizzato da monocolture intensive, spesso ottenute da semi Ogm e ad alto input chimico. In altre parole, l’encomiabile intento di salvare il pianeta dall’impatto negativo degli allevamenti animali poggia sullo stesso sistema produttivo che sta distruggendo la fauna selvatica, inquinando l’acqua e il suolo, e riscaldando il pianeta. Un circolo vizioso che avrebbe, apparentemente, poco senso se non si considerassero gli attori che si celano dietro tali proposte. Eppure, nonostante le tante contraddizioni, quella del cibo sintetico appare una sfida non impossibile per l’industria che ha deciso di investire massicciamente in questo settore. Non è un caso che gli alimenti artificiali siano entratati di prepotenza nell’agenda del recente Food Systems Summit di New York.

Una scelta ecologica?

Ma partiamo dalla domanda più importante. Il cibo artificiale rappresenta una soluzione reale ai cambiamenti climatici e, in generale, al degrado ambientale? Certo, produrre gli alimenti in laboratorio non comporta lo sfruttamento intensivo diretto di risorse naturali come l’acqua e il suolo. Eppure sono molti gli studi che mettono in dubbio la presunta sostenibilità di questa industria che conta oramai su una galassia di start up capaci di proporre soluzioni tecnologiche sempre più sorprendenti. Molte aziende stanno investendo nella carne cellulare, la così detta cultured meat, “carne coltivata” a partire da vere cellule animali. Una tecnologia che mira a rivoluzionare anche il settore lattiero-caseario con il cosiddetto cultured milk, ovvero il latte coltivato in laboratorio.

L’azienda canadese Better Milk sta investendo massicciamente sulla produzione di latte di mucca utilizzando direttamente le cellule mammarie bovine. Ma c’è anche chi ha già pensato di applicare la stessa logica agli esseri umani. La TurtleTree Labs, una startup con sede a Singapore e negli Stati Uniti, è pronta a lanciare sul mercato lattoferrina umana come primo prodotto commerciale cellulare per neonati. Anche la statunitense Biomilq ha annunciato di esser pronta a commercializzare il primo latte sintetico per bambini coltivato da cellule umane. Un prodotto equiparabile al latte materno? Secondo la compagnia, il bio-latte potrebbe risultare addirittura superiore in quanto “prodotto al di fuori del corpo in un ambiente sterile e controllato, privo delle tossine ambientali, degli allergeni alimentari e dei farmaci da prescrizione che sono spesso presenti nel latte materno”. Considerazione, purtroppo, fondata come dimostrano gli ultimi studi sul latte materno naturale. Una recente indagine interuniversitaria americana ha rilevato la presenza di Pfas nel 100% del latte materno analizzato: tutti i 50 campioni esaminati hanno evidenziato la presenza delle pericolose sostanze chimiche a livelli fino 2 mila volte superiori a quelli considerati sicuri nell’acqua potabile. Eppure, ancora una volta, rimane la sensazione che l’apparato industriale miri sistematicamente a investire su soluzioni tecnologiche per trarre profitto dai problemi da esso stesso creati. Una logica perversa: continuare a inquinare il naturale per poter poi vendere soluzioni artificiali.

Anche gli alimenti artificiali “a base vegetale” si fondano su innovazioni tecniche come la biologia sintetica che comporta la riconfigurazione del Dna di un organismo per creare qualcosa di completamente nuovo, che non si trova in natura. Aziende come Beyond Meat e Impossible Foods usano una sequenza di codifica del Dna tratta dalla soia o dai piselli per creare un prodotto che ha l’aspetto e il sapore della carne vera. Il famoso Impossible Burger è costituito quasi interamente da colture comuni: grano, mais, soia, cocco e patate. Ma un ingrediente chiave, l’eme, la molecola che dà alla carne il suo sapore, non è così facile da ottenere in natura. Motivo per cui viene sintetizzata in laboratorio, come spiega lo stesso Pat Brown, fondatore e ad di Impossible Foods: “Usiamo il lievito geneticamente modificato (con il Dna della soia ndr) per produrre l’eme, la molecola “magica” che rende la carne artificiale saporita e rende l’Impossible Burger l’unico prodotto a base vegetale a fornire la deliziosa esplosione di sapore e aroma che i consumatori carnivori desiderano”.

La carne artificiale è inoltre costituita da proteine e grassi provenienti da piselli, patate, soia, mais coltivati in monocolture basate su quelle stesse lavorazioni pesanti, input chimici e Ogm che stanno compromettendo la biodiversità globale, distruggendo la fauna selvatica, alterando i suoli e inquinando le falde acquifere. Eppure, il primo punto delle campagne di marketing delle aziende di cibo sintetico è, immancabilmente, quello relativo a un impatto ambientale ridotto. Un assunto difficilmente dimostrabile considerando che gli alimenti sintetici a base vegetale si appoggiano sullo stesso identico impianto dell’agricoltura industriale. Non c’è quindi da stupirci se una recente ricerca del Health Research Institute Laboratories ha rintracciato livelli di glifosato (e del suo metabolita Ampa) nell’Impossible Burger pari a 11,3 ppb. Una quantità più che sufficiente ad avere un impatto negativo sul nostro microbiota intestinale e quindi sul nostro sistema immunitario, senza dimenticare la “probabile” cancerogenicità del glifosato dichiarata dallo Iarc e la sua oramai accertata capacità di agire come interferente endocrino.

La sostenibilità del sistema produttivo biotech rispetto a quello tradizionale è stata messa in dubbio da numerosi studi anche da un punto di vista delle emissioni climalteranti. Secondo una recente ricerca, le emissioni di diossido di carbonio, prodotte dal processo industriale della carne sintetica, persistono nell’atmosfera per centinaia di anni a differenza del metano, prodotto dagli allevamenti intensivi classici, che si dissolve nell’atmosfera dopo una decina di anni. Una grande quantità di energia è infatti necessaria per il processo produttivo che comprende varie fasi energivore fra cui il funzionamento del bioreattore, il controllo della temperatura, l’aerazione e i processi di miscelazione. Solo una totale decarbonizzazione dei sistemi energetici potrebbe migliorare questo indicatore, al momento sfavorevole all’industria del Food Tech che, di fatto, non può vantare performance più ecologiche rispetto ai sistemi produttivi tradizionali. Gli alimenti sintetici non sembrano dunque poter legittimamente entrare nella categoria del cibo “eco-friendly” ma piuttosto in quella del cibo ultra-processato, proprio per l’alto grado di lavorazione necessaria.

A differenza dei cibi tradizionali a base vegetale, queste nuove alternative di carne sono dunque cibi ultra elaborati, che i nutrizionisti normalmente raccomandano di evitare a causa dei loro impatti negativi sulla salute.  Una recente indagine analizza i nuovi alimenti artificiali proprio dal punto di vista nutrizionale esaminandone i singoli ingredienti. Gli alimenti ultra-lavorati presentano spesso alti livelli di sodio e grassi per essere appetibili, e la carne sintetica non fa eccezione, arrivando addirittura a superare il contenuto di sodio della carne naturale. Gli ingredienti che compongono la carne coltivata sono inoltre purificati ed hanno, al pari di altri alimenti ultra-lavorati, generalmente bisogno di essere integrati con nutrienti e fortificanti. Molti dei nutrienti che si trovano nella carne naturale, come il ferro, lo zinco e la vitamina B-12, sono aggiunti come ingredienti separati nella carne artificiale. Ma questi nutrienti non possono essere assorbiti dai cibi fortificati così bene come lo sono dai cibi interi come carne, noci e semi. Di conseguenza anche il nostro organismo potrà trarre minori benefici da questi nutrienti. Una dieta sana e rispettosa del pianeta, concludono i ricercatori, non richiede nuove tecnologie e non deve includere più prodotti industriali ultra-processati ma si basa piuttosto su un’agricoltura biologica e rigenerativa che offra prodotti sani e nutrienti.

Big food: cibo artificiale, profitto naturale

Non possiamo dunque asserire che il cibo artificiale faccia bene all’ambiente e alla salute dei consumatori. Quello che è però possibile asserire, senza possibilità di smentita, è come faccia bene  ai portafogli degli investitori. Le aziende biotech e i giganti dell’agribusiness si stanno infatti costruendo la possibilità di invadere uno dei mercati più promettenti del prossimo futuro: quello del consumo green. Il risultato è un’intera gamma di alimenti come carni, uova, formaggi e latticini sintetizzati in laboratorio.

Il sistema è sempre lo stesso. Quello dei brevetti. Solo per l’Impossible Burger sono ben 14 i brevetti depositati e altri centinaia sono in attesa di essere approvati per altri prodotti commestibili sintetici. Un cambiamento di prospettiva epocale. In primo luogo perché, attraverso la logica dei brevetti, gli animali e i prodotti vegetali continuano ad essere equiparati a elementi usa e getta che possono essere semplicemente sostituiti da tecnologie più efficienti come i prodotti di laboratorio. La profonda relazione dell’uomo con la natura è completamente ignorata. E’ ancora una volta l’ad di Impossible Foods a spiegare bene l’equazione, per chi non la avesse ancora chiara: “Gli animali – sentenzia Pat Brown – sono solo la tecnologia che abbiamo usato fino ad ora per produrre carne. Ciò che i consumatori apprezzano della carne non ha niente a che fare con il modo in cui è fatta. Vivono  tranquillamente sapendo che è fatta da animali”.

In secondo luogo, perché continuiamo a perdere il controllo sull’origine e sulla produzione del cibo rinunciando progressivamente alla nostra sovranità alimentare. Il cibo artificiale non si pone come una chiara alternativa per la nostra dieta ma, dissimulando la stessa forma del cibo tradizionale, cerca di insinuarsi subdolamente sulle nostre tavole. Un’operazione di falsificazione a tutti gli effetti che mira a ottenere il controllo sulla nostra dieta rendendola dipendente dalle multinazionali produttrici e detentrici dei brevetti. Concedere il controllo del nostro cibo a poche aziende può avere però un impatto deleterio sui sistemi alimentari locali erodendo la sovranità alimentare della popolazione. Secondo le aziende biotech, la natura e le sue forme viventi non sono altro che una tecnologia esausta, obsoleta: “Se c’è una cosa che sappiamo, – arringa ancora l’ad di Impossible Foods – è che quando una tecnologia antica, non migliorabile, contrasta una tecnologia migliore, che è continuamente migliorabile, è solo una questione di tempo prima che il gioco sia finito”.

Pat Brown, d’altra parte, sembra sapere il fatto suo anche quando dichiara che i suoi investitori vedono chiaramente all’orizzonte “un’opportunità da 3 trilioni di dollari”. E i numeri gli danno ragione. L’industria della biologia sintetica è in piena espansione. Ha raggiunto un valore di 12 miliardi di dollari nell’ultimo decennio e si prevede che raddoppierà entro il 2025 fino a raggiungere gli 85 miliardi nel 2030. Una crescita esponenziale confermata dagli ultimi dati Synbiobeta: il primo quarto del 2021 ha fatto registrare investimenti record in start up per 4,7 miliardi di dollari e per 4,2 miliardi nel secondo quarto. Negli ultimi venti anni il numero di aziende specializzate in questo campo è passato da meno di 100 nel 2000 a più di 600 nel 2019. Beyond Meat è stato uno dei titoli più “caldi” nel 2019. Le azioni dell’azienda di carne a base vegetale sono esplose del 859% durante i suoi primi tre mesi di vita.

E non è certo un caso che, a fianco di giganti industriali come Cargill e Tyson Foods, anche i più grandi filantropi “ambientalisti” stiano investendo in questo settore. Bill Gates ha, per esempio, investito in Impossible Foods, Beyond Meat, Memphis Meats (ora Upside Foods), Motif e Hampton Creek Foods e Biomilq. Un percorso seguito da Richard Branson e Jeff Besos, rispettivamente fondatori di Virgin e Amazon. E ce ne è anche per il Made in Italy. Una start up tedesca, la Formo, ha appena ricevuto un finanziamento record dai suoi azionisti di 50 milioni di dollari per sviluppare su grande scala la produzione di ricotta e mozzarella in laboratorio. Il finanziamento rappresenta un record per una start up del foodtech europeo e invia un chiaro segnale agli investitori e ai mercati di tutto il mondo.

Cibo fortificato e ultra-processato

Il recente Food Systems Summit di New York, tenutosi nello scorso mese di settembre fra le proteste delle associazioni ambientaliste internazionali, è forse il luogo e il tempo dove gli intenti delle multinazionali del cibo hanno trovato la loro migliore espressione. In pagine e pagine di documenti le menzioni relative al biologico o all’agroecologia si contano sulle dita di una mano e, anche quando citate, sembrano svolgere una mera funzione di contorno. Il modello di sviluppo deve rimanere lo stesso, ovvero quello della fallimentare ma remunerativa rivoluzione verde. Anche gli attori coinvolti, ovvero i grandi investitori e le multinazionali dell’agribusiness, devono rimanere gli stessi per continuare a trarre profitti dai nuovi investimenti tecnologici. Ciò che va radicalmente cambiata è, semplicemente, la narrazione. E’ questo l’unico elemento veramente green che si potrà trovare nei piani d’azione dei padroni del cibo. E non si potrà neanche dire che non ci avevano avvertito. Negli Action Track 1 e 2 del Summit, la strategia globale è, tutto sommato, ben spiegata.

L’Action Track 1, denominato “Garantire l’accesso al cibo sicuro e nutriente per tutti”, promuove la fortificazione degli alimenti su larga scala come soluzione alla malnutrizione. La fortificazione alimentare è il processo di aggiunta di sostanze nutritive negli alimenti. Questo procedimento può prevedere anche il ricorso alla biotecnologia e alle modificazioni genetiche. Si tratta di un approccio spesso raccomandato, ed effettivamente messo in pratica, nei paesi in via di sviluppo dove si riscontrano delle carenze nutrizionali. Ampliare e arricchire la dieta, garantendo l’accesso al cibo salubre alla popolazione, potrebbe risolvere molti problemi. Ma le multinazionali del settore pensano che sia più conveniente immettere sul mercato un solo alimento fortificato.

Un esempio classico è quello del Golden Rice, riso geneticamente modificato per contenere livelli di beta-carotene capaci di porre rimedio alle carenze di vitamina A riscontrate nella popolazione. La Bill and Melinda Gates Foundation ha finora elargito 28 milioni di dollari per finanziare il Golden Rice. Un progetto in collaborazione diretta con la Global Alliance for Improved Nutrition (Gain, fondata nel 2001 proprio da Bill Gates). Gain, leader dell’Action Track 1, è stata fra le prime organizzazioni a utilizzare il modello del partneriato pubblico-privato. Da allora, ha continuato a sostenere progetti di biofortificazione per combattere la malnutrizione e l’insicurezza alimentare. Gain condivide anche molti degli stessi donatori di Agra (Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa), come la Fondazione Rockefeller, Bsf o Unilever, e ha ricevuto non meno di 251 milioni di dollari dalla Fondazione di Bill e Melinda Gates tra il 2002 e il 2014.

L’approccio basato sulla fortificazione di un singolo alimento, piuttosto che sull’incremento della varietà e della qualità del cibo disponibile, ha minato, secondo molti osservatori, la capacità delle comunità di rafforzare i sistemi alimentari locali basati sulle conoscenze culturali e tradizionali erodendo così la loro sovranità alimentare. Le politiche di biofortificazione, al pari di altre soluzioni tecnologiche, sono infatti accusate di indurre dipendenza da una manciata di colture di base o da singoli ingredienti aggiunti, ignorando così il ruolo centrale della biodiversità nella nutrizione. La semplice integrazione di un nutriente non sembra poter risolvere il problema della malnutrizione ma sembra poter produrre ottimi margini di profitto per le multinazionali dell’agribusiness.

Uno dei paesi maggiormente coinvolti nei programmi di fortificazione alimentare è il Bangladesh. Una recente analisi dell’attivista Farida Akhter coglie lucidamente le contraddizioni di un approccio che continua a svilupparsi lungo i corrosi binari della rivoluzione verde: “Le coltivazioni di riso in monocoltura, che utilizzano quasi l’80% della terra, stanno causando una carenza nella produzione di altre colture alimentari essenziali necessarie per l’equilibrio nutrizionale. La scarsa diversità alimentare, con il 70% della dieta composta da cereali e l’inadeguato apporto di proteine e micronutrienti, è sotto accusa, ma non si dice come la produzione in monocoltura e l’uso di pesticidi influenzino la disponibilità e la qualità del cibo e della nutrizione. Invece di trasformare l’agricoltura a base di prodotti chimici, vengono offerte come soluzioni alla malnutrizione nuove soluzioni tecnologiche come l’olio commestibile fortificato con vitamina A, riso fortificato con zinco, sale fortificato con iodio. Questi non sono gli unici alimenti che la gente mangia. Un approccio agro-ecologico e basato sulla biodiversità nell’agricoltura per la produzione di cibo risolverebbe la maggior parte dei problemi”.

Esistono molti altri esempi di partnership pubblico-private per modificare geneticamente (o biofortificare) le colture. Per esempio, il sorgo attraverso il progetto Africa Biofortified Sorghum Project e la manioca attraverso il progetto BioCassava Plus in collaborazione con il National Root Crops Research Institute in Nigeria. Entrambi i progetti mirano a migliorare la sicurezza nutrizionale e a correggere le carenze vitaminiche in Africa fortificando le colture di base e integrandole con beta-carotene, che l’organismo converte in vitamina A, ferro e proteine. L’elenco comprende anche la controversa banana OGM, creata dal dottor James Dale della Queensland University of Technology, che ha ricevuto oltre 15 milioni di finanziamenti dalla Fondazione Gates ed è ora in fase di sperimentazione in India e Uganda. Se da un lato l’imposizione di questa coltura geneticamente modificata arricchita di ferro pretende di salvare la vita delle donne, rimediando alle carenze di ferro nelle donne anemiche e prevenendo la morte durante il parto, dall’altro potrebbe contribuire all’erosione della biodiversità in India, che ha sempre avuto un’alto numero di varietà di banane, oltre che di altri alimenti ricchi di ferro.

Inoltre, gli OGM stanno iniziando a essere falsamente equiparati alla biofortificazione, al fine di pubblicizzarli ulteriormente e permettere loro di entrare furtivamente nei nostri alimenti. Ciò è emerso chiaramente in occasione di una riunione del Codex Alimentarius tenutasi in Germania, dove, nonostante l’opposizione della maggior parte dei Paesi presenti, si è registrata una chiara pressione per l’inclusione degli OGM nella definizione di biofortificazione. Inutile dire che una decisione così controversa favorirebbe l’inganno del mercato e denoterebbe una mancanza di trasparenza nella definizione di standard e linee guida alimentari. Se le forze a favore degli OGM potranno continuare a occultare i propri alimenti geneticamente modificati all’interno della definizione di biofortificazione, i consumatori saranno ingannati su scala mondiale e lasciati deliberatamente confusi nel capire se stanno acquistando prodotti biologici o qualcosa di completamente diverso.

Anche l’Action Track 2 del Summit, ovvero “passaggio a modelli di consumo sostenibili”, è basato su soluzioni sulla cui sostenibilità ci sono molti dubbi. Il piano d’azione si basa sostanzialmente sulla promozione di alimenti artificiali e ultra-processati a base vegetale con lo scopo dichiarato di raggiungere la “diversificazione delle proteine”. Un approccio che lascia molti dubbi perché, proprio come nel caso della fortificazione degli alimenti, la semplice aggiunta di proteine isolate, vitamine e minerali alle diete non sembra poter conferire gli stessi benefici per la salute degli alimenti freschi e interi. L’eccessiva lavorazione dei prodotti ha portato, in molti casi, a forti polemiche relative alle tante sostanze chimiche utilizzate tanto che molti di questi alimenti rientrano, in pianta stabile, nella categoria del Junk Food, il cibo spazzatura.

E’ interessante notare che a guidare l’Action Track 2 del Summit, ci sia Eat, organizzazione legata al World Economic Forum e a partner come Nestlé e Danone, entrambi leader nella produzione di alimenti ultra processati. Le raccomandazioni del piano d’azione provengono direttamente dal rapporto Eat-Lancet “Food in the Anthropocene: the Eat-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems”. Un rapporto molto controverso perché, se da un lato invoca la sostenibilità, postulando la trasformazione dei sistemi alimentari attraverso la promozione di “diete sane”, dall’altro lato sorvola sul ruolo diretto dell’agricoltura industriale e chimica nella creazione di sistemi alimentari insostenibili e malsani. Il rapporto non prende mai in minima considerazione che l’adozione di diete sane possa dipendere da un allontanamento dal paradigma dell’agricoltura industriale e dall’adozione di pratiche agroecologiche. Al contrario il rapporto promuove la nozione di “intensificazione sostenibile” degli attuali sistemi alimentari con uno spostamento dell’asse di consumo globale verso alternative “a base vegetale”. Una soluzione che, ancora una volta, rischia di sostituire le diete biodiverse e locali con alimenti sintetici ultra-processati realizzati con tecnologie brevettate altamente vantaggiose solo ed esclusivamente per le multinazionali dell’agribusiness.

EAT ha una partnership, attraverso FrESH, con l’industria del cibo spazzatura e con le grandi multinazionali dell’agribusiness: Bayer, BASF, Cargill, Pepsico, ecc.

Quale futuro per le nostre diete e per il pianeta?

E’ chiaro che sarebbe difficile sedersi oggi, in un ristorante, e ordinare, a cuor leggero, un intero menù composto da cibo artificiale. Eppure, in un prossimo futuro, questa scelta potrebbe non sembrare tanto ardita. Anzi, potrebbe addirittura suonare come una scelta responsabile. In un futuro ancora più lontano, questa potrebbe non essere più una scelta, ma l’unica opzione per non alzarsi da tavola affamati. In questo futuro, forse più prossimo di quanto crediamo, ci potrebbero essere meno scelte rispetto a quante ne abbiamo oggi. Se l’agroecologia e le produzioni biologiche non dovessero essere sostenute adeguatamente, quel futuro, che oggi ci appare distopico, potrebbe effettivamente realizzarsi per mancanza di alternative.

C’è chi potrebbe obiettare: ma le strategie Farm to Fork e Biodiversità dell’Unione Europea non ci chiedono, fra le altre cose, di espandere del 25% la superficie a biologico e ridurre del 50% l’uso dei pesticidi entro il 2030? La risposta è nell’attuazione di tali strategie che dovrebbe avvenire primariamente attraverso una riforma della Pac, la politica agricola dell’Unione che, nel momento dell’allocazione delle risorse, predilige sovvenzionare i grandi produttori convenzionali. Non è infine da dimenticare che la stessa strategia Farm to Fork fa l’occhiolino alle nuove tecniche di manipolazione genetica, ovvero gli Ogm di nuova generazione. Un altro favore alle grande multinazionali del settore che, attraverso le loro pervasive e dispendiose campagne di lobby, riescono a cadere sempre in piedi. E tutto ciò al netto del fatto che le politiche dell’Ue rimangono, e di gran lunga, le più lungimiranti e illuminate su scala planetaria.

Ma se questi sono i grandi movimenti della politica globale cosa accade a livello individuale? Le scelte dei consumatori hanno un impatto consistente sui mercati, come dimostrato dalla crescita del biologico in Italia. Un recente sondaggio Coldiretti/Ixè indica, per esempio, che il 95% degli intervistati boccia la carne sintetica. I consumatori esprimono una istintiva diffidenza nei confronti del cibo sintetico ed è forse questo il motivo per cui c’è bisogno di accompagnare questi prodotti con una narrazione ecologica. Che però fatica a tenersi in piedi da sola. Se è vero che le diete vegetariane e vegane hanno potenzialmente un impatto positivo sull’ambiente è da sottolineare come i surrogati artificiali di carne, uova e formaggi possano non averne. Anzi, ci sono molti elementi che portano a pensare che le industrie biotech non siano affatto sostenibili come pretendono di essere e che siano, piuttosto, nel mezzo di una delle più grandi e promettenti campagne di greenwashing di sempre per intercettare una crescente platea di consumatori che vorrebbe, genuinamente, operare scelte alimentari ecologiche. Si tratta della stessa platea di consumatori che, senza essere sviati dalla narrazione green dell’industria, opterebbe, con tutta probabilità, per un’alimentazione biologica favorendo così la crescita del mercato e quindi dell’offerta. Da questo punto di vista i grandi investimenti nell’industria del biotech e del cibo sintetico potrebbero ulteriormente ritardare quei processi rigenerativi e realmente sostenibili che stanno cercando di emergere, con grande difficoltà, a livello locale in tutto il mondo.


Fonte: Creato in laboratorio: la minaccia del cibo artificiale, Manlio Masucci, Terra Nuova, febbraio 2022


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