Home > Notizie > i nostri articoli > Un campanello d’allarme dal Kerala su crescita e sviluppo

Di Vandana Shiva – Huffington Post Italia, 29 agosto 2018 | Fonte

Le immagini delle inondazioni e frane nel Kerala, noto come “il paese di Dio”, dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme per tutto il mondo.

Dovremmo chiederci se siamo su un percorso di sviluppo sostenibile. Il 9 settembre sarò al Sana di Bologna per presentare il Manifesto “food for health” (Cibo per la salute), curato da Navdanya international ed edito da Terra nuova edizioni. In questo documento programmatico, che incorpora i contributi di alcuni dei maggiori esperti mondiali nei settori della nutrizione, dell’agricoltura sostenibile e della salute, si propone un nuovo paradigma basato sui sistemi alimentari locali, ecologici e diversificati. Un sistema che sia rispettoso dell’ambiente e che non si limiti a sfruttarne le risorse nell’immediato, ignorando i danni sul medio e lungo periodo.

Quanto avvenuto in Kerala non è dunque un evento da addebitare esclusivamente alla tragica casualità. Negli anni ’70, la deforestazione provocò frane e inondazioni nell’attuale Uttarakhand. Le donne delle montagne si riunirono in un gruppo chiamato “Chipko” per fermare il disboscamento. Sono diventata volontaria del movimento Chipko. Dopo le devastanti inondazioni del 1978, il governo si rese conto che i modesti introiti derivanti dalla silvicoltura estrattiva nelle fragili colline erano insignificanti rispetto ai costi della distruzione delle inondazioni. La relazione Gadgil sui Ghat occidentali ha stabilito che la deforestazione nei bacini idrografici fragili, la costruzione di troppe dighe e la costruzione nelle pianure alluvionali sono alla base dei disastri ecologici. Se a ciò si aggiungono gli effetti legati al cambiamento climatico, si arriva al disastro che stiamo vivendo in Kerala. La tragedia era dunque prevedibile, ma ogni avvertimento di carattere ecologico è stato ignorato in quanto i vertici dei diversi partiti condividono la religione dello “sviluppo” e della “crescita“. Queste due parole dominano il discorso economico, politico, sociale, culturale e si prestano a qualunque forma/significato che l’oratore e l’ascoltatore intendano loro assegnare.

Lo sviluppo è in origine un termine biologico, non economico. Si riferisce all’evoluzione di un seme in una pianta, di un embrione in una persona. Si riferisce allo sviluppo auto-organizzato, auto-diretto, auto-evolutivo. La struttura delle future forme di sviluppo si basa sul complesso potenziale dei sistemi viventi. Lo sviluppo è stato geneticamente ingegnerizzato in un concetto economico/politico il 20 gennaio 1949, quando il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, nel suo discorso inaugurale, dichiarò le ex colonie dell’emisfero sud, prosciugate della loro ricchezza attraverso la colonizzazione, come “aree sottosviluppate”. Lo sviluppo divenne, da quel momento, un sinonimo di ricolonizzazione.

Dal suo significato di evoluzione auto-organizzata, è successivamente diventato un termine economico relativo a un sistema imposto dall’esterno per mantenere le ex colonie dipendenti, intrappolate nel debito, e fonti di rendite da rimborsi di interessi. Nell’incontro di Bretton Woods nel 1944, due anni dopo che il Mahatma Gandhi aveva espresso l’appello “Quit India“, vennero create nuove istituzioni come la Banca Mondiale e il Fmi per perpetrare il sistema dello sfruttamento coloniale. Lo “sviluppo” divenne allora una nuova forma di colonizzazione che ha legittimato, per esempio, lo spostamento delle popolazioni indigene dalle loro foreste e dei contadini dalle loro terre.

Anche il termine “crescita” ha le sue origini nel mondo della biologia e della vita. Le piante crescono, i bambini crescono. La crescita, come lo sviluppo, si riferiva in precedenza alla crescita e alla fioritura della vita. La “crescita” come Pil è stata inventata per mobilitare risorse per la guerra. La definizione di crescita si basava su “se si produce ciò che si consuma, non si produce”. Si è trattato di un assalto globale alle economie locali autosufficienti e indipendenti. Gli straordinari cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono stati definiti come “non produzione”. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 70% del cibo che consumiamo, sono definiti improduttivi. Le donne che svolgono la maggior parte del lavoro sono definite come non operanti in questo paradigma di “crescita”.

Il Pil è emerso come uno tra i più potenti concetti dei nostri tempi. Si suppone che misuri la ricchezza delle nazioni, ma la crescita senza limiti è la fantasia degli economisti, delle imprese e dei politici. Si dice ripetutamente che per eliminare la povertà dobbiamo avere la crescita. I ricchi devono diventare super ricchi, in modo che la “crescita” possa porre fine alla povertà. L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil è totalmente dissociato dal valore reale, mentre chi accumula risorse finanziarie può far valere le proprie pretese sulle risorse reali delle persone: terra e acqua, foreste e sementi. Non è la fine della povertà, ma la fine dei diritti umani, della giustizia e della sicurezza ecologica. Le persone sono state rese “flessibili” in un mondo in cui le regole del denaro e il suo valore hanno sostituito i valori umani che portano alla sostenibilità, alla giustizia e alla dignità umana.

La crescita misura dunque i super profitti dell’uno per cento, ma non riesce a misurare i danni arrecati alla natura e alla società. La povertà e l’esclusione sono legate al paradigma della crescita. Si dice che la torta deve diventare più grande in modo che possa essere condivisa tra un numero maggiore di persone. È così che la povertà sarà eliminata nella religione fondamentalista della crescita. Ma le illusioni, che prendono il sopravvento sul benessere reale e sulla gente reale, stanno restringendo la torta da un punto di vista sia ecologico sia materiale. Una torta avvelenata dagli stessi processi produttivi che generano “crescita”, e in continuo restringimento, diventa causa di povertà, disuguaglianza, malattie. Non è una risposta alla povertà, è la ragione sia della povertà che della distruzione ecologica.

I processi che permettono all’1 per cento di accumulare ricchezza illimitata sono quelli attraverso i quali si catturano risorse e mezzi di sussistenza delle persone. La creazione di povertà estrema e di accumulo di ricchezza estrema è un unico processo interconnesso. L’aumento della ricchezza inglese durante il colonialismo era legato alla creazione di povertà e carestie in India. La concentrazione della ricchezza nelle mani dell’uno per cento è legata alla crisi planetaria e alla crisi dell’aggravarsi della fame e della povertà. La crescita economica nasconde la povertà che essa crea, sia attraverso la distruzione della natura e della sua capacità di fornire beni e servizi, sia attraverso la distruzione delle capacità di autoproduzione delle società, definite da Gandhi “swadeshi“. La manipolazione dell’economia attraverso il Pil deve essere sostituita da un modello di sviluppo per il benessere di tutta la vita e di tutte le persone.

Ecco perché nazioni come il Bhutan hanno adottato la felicità interna lorda invece del prodotto nazionale lordo per misurare il benessere. Economisti come Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno ammesso che il Pil non capta la condizione umana. Navdanya sta lavorando con il Bhutan per compiere una transizione verso un Bhutan biologico al 100%, così come una transizione dal Pil alla felicità nazionale lorda come misura del benessere socio-economico. Coltivare il biologico significa aumentare la felicità e il benessere per il pianeta, per i contadini e per tutti coloro che del cibo si nutrono.


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