Il cibo vero, genuino, è l’espressione di come il nostro organismo sia profondamente interconnesso alla natura e alla rete della vita.
Anche se ne abbiamo quasi interamente perso la consapevolezza, il nostro organismo è talmente legato alla natura, che il nostro microbioma intestinale forma un macro-organismo continuo con il microbioma del suolo.
Questa connessione è tale che la debilitazione anche di un solo aspetto della nostra rete alimentare si ripercuote direttamente sulla nostra salute. Con l’avvento dell’agricoltura industriale, siamo stati sistematicamente allontanati dalle relazioni profonde e intrinseche che ci legano al cibo e alla Terra. Questo distacco dal mondo naturale è alla radice delle molteplici emergenze globali che affrontiamo oggi: la crisi ecologica, la crisi sanitaria e la crisi dei mezzi di sussistenza. Esse non sono separate, ma interconnesse e nascono dalla crescente dipendenza da un paradigma disfunzionale.
Il sistema alimentare industriale e globalizzato, basato sull’utilizzo di sostanze chimiche, sulle monocolture e su filiere lunghe e insostenibili, rappresenta un chiaro esempio della negazione del legame profondo tra la nostra salute e quella del pianeta. La perdita di biodiversità causata dall’agricoltura industriale, sta progressivamente facendo ammalare la Terra e i suoi abitanti, inclusi gli esseri umani.
Attraverso l’imposizione del modello agricolo industriale, le grandi multinazionali del settore agrochimico e sementiero hanno potuto realizzare enormi guadagni a scapito delle piccole realtà contadine e delle comunità locali, che stanno progressivamente scomparendo. Gli interessi di queste grandi aziende sono incompatibili con il modello agroalimentare delle piccole economie locali, basate sul rispetto della salute delle persone e del territorio. Ora le stesse grandi multinazionali che hanno contribuito alla crisi ecologica attuale, provano a convincerci di avere in tasca le soluzioni per le molteplici crisi a cui stiamo assistendo.
La narrativa dominante alimentata dall’industria agrochimica riduce la complessità della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici ad una dicotomia che mette in opposizione la produzione vegetale a quella animale, evitando di affrontare in maniera sistematica la più ampia crisi ecosistemica causata dalle pratiche industriali.
In questa falsa dicotomia, gli animali, e con essi ogni forma di allevamento, vengono indicati come causa principale della crisi ecologica, spostando l’attenzione dalle reali responsabilità del modello agricolo industriale.
Un esempio di questo approccio è il caso della brucellosi tra i bufali in Italia. La brucellosi è una malattia che insorge tra capi di bestiame concentrati in un piccolo spazio (modello tipico di allevamento industriale CAFO: Concentrated Animal Feeding operation). La diffusione della malattia è stata utilizzata come pretesto per costringere i piccoli allevatori ad abbattere i propri capi di bestiame, con effetti devastanti per la sussistenza dei piccoli produttori di mozzarella di qualità. All’attacco perpetrato verso chi produce cibo vero e genuino si contrappongono gli ingenti fondi raccolti da grandi compagnie produttrici di cibo sintetico, come la start-up tedesca Formo, per produrre ricotta e mozzarella in laboratorio.
La complessità e l’integrità dell’allevamento animale in moltissime culture di tutto il mondo non ricevono la dovuta attenzione e il dovuto riconoscimento. A livello normativo, vengono invece assimilate al modello dell’allevamento industriale, cancellando di fatto la diversità e l’importanza di culture tradizionali profondamente radicate nei territori.
In questa narrativa distorta, gli animali vengono ridotti a semplici prodotti per l’apporto di proteine, la cui somministrazione può essere facilmente rimpiazzata da tecnologie più efficienti come prodotti di bioingegneria realizzati in laboratorio.
Queste false soluzioni proposte dall’agrobusiness stanno profondamente ignorando il ruolo essenziale e multidimensionale che gli animali ricoprono all’interno di agro-ecosistemi biodiversi. Il nostro legame profondo con la natura viene completamente ignorato, mentre viene ulteriormente ampliata la spaccatura che separa gli esseri umani dai cicli vitali della natura.
Alla luce di queste considerazioni, continueremo dunque ad aspettarci le soluzioni dagli stessi soggetti che considerano la terra, il cibo e il vivente come qualcosa da estrarre, da mercificare, da cui trarre profitti per risolvere i problemi che nascono dalla separazione dalla Natura e dalla Vita? O inizieremo finalmente ad affidarci a chi custodisce la terra da generazioni, come i popoli indigeni, ai contadini che coltivano con cura e consapevolezza, agli scienziati indipendenti che migliorano ogni giorno la scienza dell’agroecologia? A chi possiamo realmente affidarci per imparare a rigenerare e curare i danni che abbiamo imposto alla Terra?
Il caso della Sardegna
Uno dei numerosi esempi in cui possiamo osservare questo conflitto, è la Sardegna. Per secoli, gli insediamenti umani in Sardegna sono stati caratterizzati dalla presenza dei pastori, i quali hanno preservato e portato avanti una tradizione di coesistenza e integrazione tra comunità umane, animali e gli ecosistemi circostanti. Gli animali hanno storicamente svolto un ruolo fondamentale nella vita di comunità, nella cultura e nelle tradizioni, specialmente in riferimento al cibo e all’agricoltura.
Nel contesto sardo, molti definiscono i sistemi alimentari locali come sistemi agro-pastorali, evidenziando l’integrazione e la coevoluzione tra le attività di pastorizia e le pratiche agricole.
Inoltre, la Sardegna costituisce un’area di studio particolarmente emblematica per le questioni legate ai sistemi agroalimentari complessi e radicati nel territorio. L’isola possiede infatti il più alto numero di pastori tradizionali in Italia ed è famosa a livello internazionale per la sua storica cultura lattiero-casearia e per la diversità e qualità dei prodotti alimentari. Gli animali sono profondamente legati alla cultura locale, alle caratteristiche del territorio, al cibo tradizionale e all’identità dell’isola. Molti dei pastori che ancora praticano pastorizia estensiva, su piccola scala, si definiscono come custodi dei saperi del mondo agro-pastorale e delle tradizioni della loro terra. Attraverso il loro lavoro e le loro pratiche, mantengono vivi la lingua e i prodotti alimentari tipici, trasferendo i loro saperi alle nuove generazioni.
In queste realtà, i pastori hanno un rapporto diretto e di cura verso i loro animali, che sono considerati come parte integrante della famiglia. Nell’ambito di una ricerca sul campo in corso, condotta da Navdanya International in Sardegna, sono stati intervistati diversi pastori in aree differenti dell’isola. Dalle interviste è emerso come gli animali facciano parte della vita quotidiana, in quello che viene descritto come uno scambio reciproco tra gli esseri umani, l’ambiente circostante e gli animali stessi.
Molti dei pastori e allevatori su piccola scala, in Sardegna, integrano una molteplicità di attività agricole nel loro lavoro: coltivano e preparano il fieno per i loro animali, coltivano le proprie verdure, si prendono cura di oliveti e vigneti producendo olio e vino biologici, allevano diverse razze e tipi di animali e piante nelle loro aziende, lasciano la biodiversità spontanea del territorio fiorire e coesistere con i loro animali e con le attività della fattoria.
Nei sistemi tradizionali, inoltre, è fondamentale che la biodiversità selvatica locale prosperi e coesista con gli animali e le attività agricole. Gli animali sono infatti profondamente integrati e funzionali al mantenimento dei territori marginali e selvatici. Ad esempio, le pecore e le capre che pascolano nelle aree selvagge di montagna, dove il rischio di incendi in estate è più elevato, contribuiscono a mantenere l’ecosistema in equilibrio. I pastori e gli allevatori su piccola scala non disboscano, ma integrano le attività del pascolo nell’ambiente selvatico, prestando attenzione ad evitare lo sfruttamento eccessivo dei territori, attraverso un numero esiguo di animali su aree molto estese.
Ciononostante, negli ultimi cinquant’anni, in linea con i processi di modernizzazione e industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, anche in Sardegna l’industria dei latticini e della carne ha visto un’importante crescita, con un passaggio sempre più significativo a forme di allevamento intensive e all’esportazione su larga scala dei prodotti locali (latte, formaggi e carne), che stanno sostituendo le reti di scambio delle economie alimentari locali, dove i pastori tradizionalmente vendono i propri prodotti freschi e genuini alle comunità locali.
In un contesto di progressiva industrializzazione del settore, molti piccoli allevatori e agricoltori rischiano quotidianamente di dover abbandonare la propria attività. Con la costante riduzione del numero degli operatori, molte delle pratiche di pastorizia tradizionale, nonché delle comunità agro-pastorali locali, stanno scomparendo. Sul territorio sardo si sta consumando un vero conflitto sociale ed economico tra pastori e agricoltori multifunzionali, di piccola scala, che lavorano seguendo pratiche tradizionali ed ecologiche, e le grandi aziende e i caseifici di stampo industriale e intensivo.
La progressiva scomparsa del complesso tessuto culturale, ecologico e sociale delle comunità agro-pastorali ha un significato molto più ampio della semplice transizione di pastori e agricoltori verso altri stili di vita e di lavoro. Significa perdita di importanti lasciti culturali, di una conoscenza intima e profonda dell’isola e del suo territorio.
I pastori, infatti, svolgendo un lavoro intimamente legato ai cicli naturali, sono custodi di un sapere antico e profondo del proprio territorio. Conoscono la propria terra più di chiunque altro e continuano a preservare e abitare zone che sarebbero altrimenti spopolate e abbandonate. Attraverso il loro sapere e soprattutto attraverso la loro presenza, i pastori possono vigilare sui cambiamenti climatici, sulle risorse idriche e sulla salute dei terreni e della vegetazione.
Se le radici di questa tradizione agro-pastorale venissero recise, rischieremmo di perdere un patrimonio culturale dal valore inestimabile, oltre all’identità e alla vitalità del territorio e dell’economia locale in Sardegna. Soprattutto, rischieremmo di perdere le pratiche e i saperi di forme di allevamento realmente sostenibili ed agroecologiche, la produzione di cibo vero, cibo genuino, per la propria famiglia e la propria comunità. Un cibo e delle pratiche sostenibili che sono sempre più marginalizzati dalle false soluzioni promosse dall’agribusiness e dal sistema alimentare industriale.
Il cibo sintetico
La questione del cibo sintetico è una delle false soluzioni più emblematiche tra quelle proposte dall’industria del cibo e rappresenta una minaccia per tutti i saperi legati alla terra e per i prodotti naturali e genuini. Questo genere di soluzioni non considera l’enorme differenza tra cibo prodotto su scala industriale da allevamenti intensivi e il ruolo che invece assumono gli animali all’interno dei sistemi agro-pastorali su piccola scala, come quelli che ancora resistono in Sardegna.
Chi oggi promuove la produzione e la commercializzazione del cibo sintetico, sostiene la tesi che esso costituisce una concreta soluzione al cambiamento climatico e al degrado ambientale, poiché non necessita di grandi quantitativi d’acqua o di suolo. Si afferma inoltre che la diffusione del cibo sintetico potrebbe contribuire ad una significativa riduzione delle emissioni di gas serra e aumentare il benessere animale ponendo fine agli orrori dell’industria della carne. Il vero scopo dietro queste soluzioni, però, non potrebbe essere più lontano da quello di combattere il cambiamento climatico o i problemi di accesso al cibo.
Queste tecnologie rappresentano infatti la nuova ondata della privatizzazione e dei brevetti avviata con la Rivoluzione Verde a partire dai semi. Implicano il controllo dell’intera catena di produzione del cibo, a partire dalla manipolazione genetica del cibo sintetico, fino alla sua produzione in laboratorio, per arrivare fino al controllo della distribuzione già nelle mani delle grandi multinazionali.
Inoltre, questi cibi ultraprocessati, di origine vegetale, vengono prodotti attraverso innovazioni tecnologiche la cui sicurezza non è ancora comprovata, come, ad esempio, la biologia sintetica, la manipolazione genetica dei CRISPR-Cas9 e i nuovi OGM. Queste tecniche prevedono la riconfigurazione del materiale genetico di un organismo per creare qualcosa di completamente nuovo, che non esiste in natura. Alcune aziende stanno addirittura investendo nella riproduzione di carne a partire da vere cellule animali. Il risultato finale di tutte queste sperimentazioni è una vasta gamma di prodotti artificiali realizzati in laboratorio: carni, uova, formaggio e latticini, che vengono gradualmente messe in commercio per sostituire i prodotti animali.
Questi prodotti sintetici stanno iniziando ad affacciarsi sul mercato. Il governo statunitense, ad esempio, ha recentemente dichiarato la carne sintetica sicura per la salute umana, autorizzando la compagnia californiana Upside Foods a produrre carne di pollo in laboratorio. Le prime richieste di autorizzazione alla vendita della carne sintetica nel mercato europeo potrebbero già arrivare entro la fine di quest’anno.
Le culture del cibo
Il sistema agroalimentare industriale viene messo in dubbio dalle scelte sempre più consapevoli dei consumatori, preoccupati per la propria salute e per l’ambiente. La promozione del cibo sintetico come soluzione ai problemi ambientali e climatici è altro che un abile tentativo di riorientare i profitti attraverso operazioni di green washing commerciale. In questo modo, le aziende produttrici di cibo sintetico, sostenute dalle grandi multinazionali dell’agribusiness, aprirono la strada ad un nuovo mercato, rappresentato da consumatori attenti alle questioni ambientali e in cerca di alternative alla carne.
Nonostante la questione del cibo sintetico possa apparire lontana dalle battaglie e dagli ostacoli quotidiani dei pastori, degli agricoltori e delle comunità locali, in Sardegna diversi movimenti locali sono ben consapevoli della minaccia presente e futura che il cibo sintetico rappresenta per la loro economia ed hanno iniziato ad organizzare eventi e dibattiti su questa tematica, sulla spinta delle campagne di informazione e sensibilizzazione portate avanti a livello nazionale e internazionale da organizzazioni della società civile, inclusa Navdanya International.
I piccoli produttori, agricoltori e pastori sardi sono molto chiari nell’esplicitare e manifestare quello che ritengono sia il cibo vero e genuino: il cibo che da generazioni viene riconosciuto come tale, un cibo radicato nella terra e nella cultura di un popolo antico. Questo vale soprattutto per i sistemi alimentari locali basati sulle reti di solidarietà e di economia circolare sviluppati sul territorio, grazie ai quali i pastori possono vendere i propri prodotti presso botteghe o mercati locali, o attraverso reti informali consolidate all’interno delle proprie comunità.
Oggi il rischio è quello di distruggere e cancellare culture del cibo antiche e millenarie, che hanno elaborato nel tempo espressioni complesse della cultura, del territorio e dell’identità, attraverso rapporti sinergici tra l’agricoltura, gli animali, la biodiversità selvatica, il paesaggio e le comunità umane.
Dobbiamo quindi riportare al centro le economie del cibo locali, circolari e rigenerative, in linea con i ritmi ecologici e i limiti che supportano queste relazioni simbiotiche. Non possiamo continuare a distruggerle perché grandi multinazionali continuino a ingrossare i propri profitti. La difesa del vero cibo genuino e delle culture basate sulla terra è oggi più importante che mai, poiché rappresenta anche la difesa dei piccoli agricoltori e dunque del nostro rapporto con il vivente.
Questo significa far rifiorire e supportare quegli stili di vita che hanno sostenuto l’umanità per millenni, laddove comunità e cultura sono co-evolute in rapporto al clima, al suolo e alla biodiversità, contribuendo alla diversità degli alimenti e dei sistemi agricoli, unendo la biodiversità e la diversità culturale in maniera simbiotica.
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