Di Manlio Masucci – Terra Nuova, 30 luglio 2020 | Fonte
Le monocolture intensive di noccioleti si stanno espandendo in molte regioni italiane per la domanda crescente delle multinazionali, alimentando però dubbi su sostenibilità ambientale ed economica; operatori bio, amministratori, scienziati e cittadini si mobilitano per un modello produttivo ecosostenibile e lo sviluppo di filiere locali per portare vera ricchezza nei territori. Qui di seguito potete leggere la sintesi del dossier pubblicato integralmente sul numero di luglio-agosto di Terra Nuova .
Dalla Tuscia al Valdarno passando per l’Umbria e le Marche. Sono molte le regioni Italia in cui l’avanzare della nocciola appare inarrestabile. Una coltivazione apparentemente molto redditizia, considerando la grande richiesta di materia prima alimentata in particolare da alcune multinazionali del settore dolciario come Ferrero, Nestlè e Loacker pronte a offrire ai coltivatori dei contratti di fornitura molto allettanti. Ma le critiche nei confronti di questo modello si alzano da più parti. In particolare, dall’area su cui ricade il biodistretto della Via Amerina e delle Forre che sta conducendo una battaglia serrata schierandosi contro l’invasione delle monocolture intensive ad alto input chimico. Un sistema, questo il capo d’accusa, con un alto impatto sul paesaggio, sul suolo e sulle acque potabili, sulla salute degli abitanti delle aree rurali, sul mondo del lavoro agricolo, sul turismo, sulla biodiversità e sulle stesse colture biologiche.
Ed è proprio l’obiettivo del biodistretto, che ad oggi comprende 13 comuni della Tuscia, voler dimostrare, nei fatti, come un approccio ecologico alla coltivazione della nocciola possa promuovere un modello economico più sostenibile ed equo. Quella della nocciola diviene una questione topica. Il confronto, e spesso lo scontro, fra due visioni del mondo: quella dell’economia globalizzata, basata sullo sfruttamento delle risorse, su lunghe filiere e sulla grande distribuzione, e quella della valorizzazione dell’economia locale e dell’autodeterminazione alimentare che si fondano sul rispetto del territorio da un punto di vista ambientale, sociale e culturale.
Conflitti ambientali
Ed è proprio la Tuscia a rappresentare l’avamposto più importante di un conflitto che sembra in procinto di espandersi anche in altre aree del paese. La Tuscia, dove i problemi legati alla coltivazione intensiva dei noccioleti sono più evidenti, diventa allora un laboratorio dove poter verificare l’entità del conflitto e la contestuale tenuta dell’alternativa, basata sull’agricoltura biologica e sul coinvolgimento di tutti gli attori locali all’interno di circuiti economici virtuosi. E’ questo l’obiettivo del biodistretto della Via Amerina e delle Forre che, da quasi dieci anni, cerca di far valere le ragioni di un’agricoltura responsabile in un’area recentemente messa sotto osservazione dal CDCA, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali.
Per comprendere appieno la portata del fenomeno basta dare un’occhiata ai dati. Secondo Coldiretti la coltivazione corilicola si espande praticamente in mezza Tuscia coinvolgendo 30 comuni e 8 mila famiglie. Circa il 30% dei noccioleti italiani si trova proprio in provincia di Viterbo. L’invasività del modello monocolturale ha portato, in alcuni casi, a vere e proprie invasioni con Comuni che hanno piantato 1.600 ettari di noccioleti su un territorio complessivo di 1.800 ettari . La rapida espansione del business della nocciola ha provocato dei cambiamenti importanti anche a livello del tessuto sociale favorendo la concentrazione della proprietà e l’industrializzazione del settore. I piccoli produttori stanno scomparendo mentre aziende private setacciano il territorio alla ricerca di nuovi appezzamenti.
Ma perché questa improvvisa corsa alla nocciola, una corsa talmente prepotente da cambiare in pochi anni i connotati e le caratteristiche di un territorio ricco di storia e cultura? Da queste parti, il business della nocciola è legato prevalentemente alla multinazionale italiana Ferrero che offre un contratto allettante ai produttori con l’impegno ad acquistare il 75% della produzione dei nuovi impianti per vent’anni senza escludere l’acquisto del restante 25%…
Per tanta grazia esiste però una condizione: il prodotto deve presentare una percentuale di cimiciato, ovvero il danno causato dalla cimice al frutto, bassa, bassissima, quasi nulla. La cimice rappresenta il pericolo numero uno ma richiedere un cimiciato vicino allo zero ha senso? E’ veramente così importante che la nocciola sia praticamente intonsa, quasi perfetta?
Bio sostenibile
… ma siamo convinti che il convenzionale, al netto dei danni economici scaricati sulla collettività, sia così remunerativo per gli agricoltori? I trattamenti hanno infatti costi alti sia per il prodotto fitosanitario da acquistare sia per il costo del lavoro necessario alla loro applicazione. Vi sono poi i costi di irrigazione maggiorati, considerando che un terreno trattato è naturalmente più assetato di un terreno bio. Una produzione “dopata” può inoltre portare a risultati considerevoli nei primi anni, ovvero nel breve periodo, ma cosa accade nel medio lungo periodo quando il terreno perde fertilità? … La nocciola biologica viene però pagata molto di più sul mercato, circa 350 euro al quintale contro i circa 250 euro al quintale del convenzionale… La domanda sorge spontanea: la richiesta di prodotti biologici è sufficiente? In altre parole, i consumatori sono pronti a pagare quel qualcosa in più per un prodotto genuino e salubre? …
Un’agricoltura consapevole?
…Anche la conversione al biologico, che il biodistretto promuove, assume, da queste parti, contorni incerti. La prima difficoltà nell’analisi di quanto sta accadendo in Tuscia inizia proprio nel comprendere chi opera realmente in biologico. Esiste un biologico vero e uno falso? Paradossale ma vero, secondo il presidente del biodistretto, Famiano Crucianelli che svela come molti agricoltori chiedano i finanziamenti per la conversione biologica per 5 anni per poi passare al convenzionale quando la pianta raggiunge l’età della produzione. Un escamotage forse non etico ma perfettamente legale: “E’ inaccettabile – attacca Crucianelli – che si usino le risorse del biologico non per produrre biologicamente ma solo per far crescere la pianta. Una delle nostre rivendicazioni è quella di portare il vincolo biologico almeno a dieci o quindici anni”. Il riferimento è al PSR della Regione Lazio 2014-2020, un piano da 780 milioni di euro, che prevede un contributo di 900 euro per ettaro all’anno. Il piano, approvato dall’UE per Lazio e Umbria, beneficia dei fondi europei a sostegno del passaggio dal convenzionale al biologico. Nel 2015, la Regione Lazio ha firmato un accordo con Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo) e Ferrero per impiantare 10 mila nuovi ettari di noccioleti.
C’è chi dice no
Le amministrazioni locali sono dunque chiamate a fare la loro parte ma non sempre i provvedimenti sono efficaci anche per la resistenza dei proprietari e delle loro associazioni pronti a ricorrere contro le ordinanze. E’ il caso dei sindaci dei paesi limitrofi al lago di Bolsena che intendono proteggere il bacino idrico da possibili contaminazioni. Le recenti ordinanze dei sindaci di Bolsena e di Grotte di Castro non hanno però avuto un buon esito e sono state bocciate dal Tar del Lazio. Una vittoria per i monocolturisti capace di innescare il famoso chilling effect (effetto doccia fredda) su altre amministrazioni intenzionate a proteggere il territorio? Piuttosto un errore di valutazione, secondo gli Avvocati per l’Ambiente che sottolineano i “gravi vizi procedurali e la non corretta impostazione” dei provvedimenti. Le due ordinanze proibivano infatti l’impianto di nuovi noccioleti sul territorio comunale indipendentemente dalle metodologie di coltivazione ledendo così il diritto all’iniziativa economica privata. Nulla vieta ai comuni, sottolineano i legali, di riproporre l’ordinanza evitando errori procedurali e allegando adeguati dati scientifici sui pericoli rilevati per la popolazione e per l’ambiente.
Una linea seguita dal Comune di Montefiascone che, nel maggio del 2019, ha pubblicato un’ordinanza “dissuasiva” che non vieta espressamente l’impianto di nuovi noccioleti ma pone una serie di condizioni che ne rendono effettivamente difficile la realizzazione con multe, in caso di trasgressione, fino a 20 mila euro. Oltre che una forte stretta sull’utilizzo dei pesticidi, fra cui il bando totale del glifosate, i proprietari dovranno sottoporsi ad una valutazione d’incidenza da parte dello stesso Comune che intende far applicare alla lettera i dettami dell’agricoltura integrata. L’ordinanza, si specifica, è valida sia per i noccioleti da impiantare sia per quelli già impiantati. Un approccio più pragmatico, dunque, che intende favorire una fase di transizione che rispetti i diritti costituzionali e ponga il Comune al riparo da possibili beghe legali.
Un noccioleto “chiavi in mano”
La questione dei noccioleti, è evidente, non riguarda oramai pochi territori lontani e disconnessi. Le monocolture intensive di nocciole si espandono, al contrario, a macchia d’olio passando oltre quando trovano un ostacolo. L’obiettivo di associazioni e amministrazioni locali è quello di fare rete, di mettere in comune le problematiche e le soluzioni di fronte ad un attacco oramai ben identificabile.
Un recente convegno, tenutosi ad Orvieto ha rappresentato la prima importante occasione di mettere a confronto rappresentanti di territori diversi. Nuovi eventi sono in programma per rafforzare il network che intende strutturarsi come Rete Nazionale. L’ordinanza di Montefiascone rappresenta, da questo punto di vista, un precedente importante che non segna solo un’importante affermazione in sede legale ma che conferma anche l’importanza del lavoro delle associazioni di cittadini che si oppongono allo sfruttamento indiscriminato del loro territorio. Il fiume in piena delle nocciole continua a correre attraverso regioni, province e comuni ma la richiesta per un nuovo modello produttivo, rispettoso dei paesaggi, dei suoli, dell’acqua, della biodiversità e che non si basi sull’estrazione della materia prima ma piuttosto sulla valorizzazione della filiera locale, si leva sempre più forte e chiara sia dai territori in cui le monocolture sono già state impiantate sia da quelli che guardano con apprensione l’avanzare dell’onda corilicola.