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Di Manlio Masucci – Terra Nuova, 16 febbraio 2020 | Fonte | Intervista tratta dall’articolo La guerra dei semi, su Terra Nuova di febbraio 2020

Abbiamo intervistato José Esquinas-Alcázar, «padre» del Trattato internazionale sulle risorse genetiche.

Se nel corso degli ultimi millenni l’uomo ha avuto a disposizione più di 10.000 specie vegetali per il proprio nutrimento, oggi ne abbiamo poco più di 150. Fra queste, solo 12 coprono l’80% dei bisogni alimentari mondiali e 4 di queste, il riso, il grano, il mais e la patata, coprono da sole più della metà dei nostri consumi.

I danni alla biodiversità sono stati talmente ingenti che la stessa Fao, già negli anni ’70, ha dato il via alle negoziazioni per la creazione di un Trattato internazionale sulle sementi (UN’s International Treaty on Plant Genetic Resources for Food and Agriculture) allo scopo di arginare la perdita di biodiversità.

Ad oggi, il Trattato, entrato in vigore nel 2004 e ratificato anche dall’Italia, è l’unico strumento internazionale vincolante che tutela i diritti dei piccoli agricoltori nel conservare e nello scambiare i loro semi all’interno di sistemi biodiversi. Il Trattato prevede una riserva mondiale di risorse genetiche di 64 specie vegetali che, da sole, rappresentano l’80% dei nostri consumi alimentari ortofrutticoli.

Un Trattato che deve però essere continuamente rafforzato e difeso dai grossi appetiti economici delle multinazionali del settore, nella consapevolezza del suo inestimabile valore per il futuro dell’umanità. Lo scorso novembre si è tenuto a Roma il meeting biennale sul Trattato che, secondo molti osservatori, è stato un fallimento proprio a causa degli enormi interessi delle ditte sementiere.

Abbiamo intervistato il professor José Esquinas-Alcázar, già segretario della Commissione sulle risorse genetiche della Fao e considerato il «padre» del Trattato.

Qual è la sua opinione rispetto all’ultimo incontro biennale sul Trattato? Ha portato a degli avanzamenti per la protezione della biodiversità e dei diritti dei piccoli produttori?
Se ci concentriamo su quello che era l’aspetto considerato da molti il più importante, ovvero l’aggiornamento del meccanismo di distribuzione dei benefici, per cui coloro che ricevono le risorse genetiche vegetali incluse nel sistema multilaterale sono tenuti a versare una parte equa dei benefici derivanti dalla commercializzazione dei prodotti, dobbiamo constatare che non è stato raggiunto un accordo.
Ma non parlerei di fallimento, perché il Trattato è uno strumento in via di definizione e avendolo curato sin dall’inizio posso vedere tanti aspetti positivi.
Il Trattato si è consolidato e oramai è un testo «sacro» per tutti. Anche per le industrie sementiere che senza l’accesso alle risorse genetiche non potrebbero lavorare. Siamo poi arrivati alla riunione di Roma con la ratifica degli Usa e del Giappone, avvenuta appena due anni fa, con quasi quindici anni di ritardo rispetto ai paesi europei. Sono inoltre stati fatti passi avanti sui diritti degli agricoltori e si è consolidata l’importante iniziativa sul monitoraggio e studio delle buone pratiche che continuerà anche nel prossimo biennio.
Siamo in una fase di interpretazione del Trattato, soprattutto di quelle parti dove il testo è divenuto obsoleto in seguito all’introduzione delle nuove tecnologie. Personalmente preferisco non raggiungere un accordo che farne uno cattivo. Quindi, per quanto concerne il meccanismo della ripartizione dei benefici, è stato deciso di rimandare la discussione, anche perché nel frattempo si è aperta l’enorme questione della Digital sequence information, o Dsi.

In che cosa consiste precisamente la Dsi e quali sono le problematiche ad essa connesse?
In pratica si tratta della digitalizzazione di tutte le informazioni genetiche relative ai semi. In questo modo è possibile migliorare le varietà senza avere accesso al seme fisico ma semplicemente utilizzando le sequenze genetiche. Alcuni paesi e le aziende sementiere, quando usano Dsi, non intendono riconoscere l’obbligo di distribuzione dei benefici. Ma i contadini hanno sviluppato le varietà originali e senza i semi originali dei contadini non ci sarebbe alcuna informazione.
È come se si acconsentisse a comprare un libro cartaceo ma si rifiutasse di pagare per la versione digitale dello stesso libro, nonostante i diritti d’autore siano gli stessi. Siamo di fronte a una rivoluzione rispetto al modo in cui concepiamo i semi. Non possiamo permettere che vengano definiti come una mera sequenza di informazioni, perché si tratta di risorse genetiche vere e proprie. Dobbiamo insistere per stabilire questo principio.
Fra due anni a Roma dovremo per forza trovare un accordo, perché non ci possiamo permettere di perdere ulteriore biodiversità in un’epoca di cambiamenti climatici in cui ci sarà bisogno di varietà resilienti a disposizione di tutti. La cosa è così importante che non abbiamo diritto al pessimismo.

Perché la biodiversità e l’interdipendenza sono così importanti per i nostri paesi?
Per rispondere a questa domanda partirei dall’Irlanda. Negli anni ’40 le coltivazioni di patate, l’alimento base della popolazione, vennero attaccate da un fungo, la peronospora della patata (Phytophthora infestans). La carestia che ne seguì è considerata una delle più grandi catastrofi della storia europea, con la morte di circa due milioni di persone. Qual era il problema? Perché non si riuscì a far fronte alla malattia? La risposta è semplice e ci riporta alla pericolosità del concetto di uniformità: alla fine del 1500, vennero introdotte in Irlanda una manciata di patate tutte uguali. Il problema nasceva dal fatto che le patate erano uniformi e la peronospora si riprodusse agevolmente. I conquistadores avevano portato solo quella varietà.
Come risolvere il problema che minacciava anche il resto d’Europa? Gli agronomi europei dovettero tornare in America Latina, e precisamente in Perù, dove trovarono le varietà resistenti per debellare la malattia.
Nel 1971 una malattia del mais ha attaccato tutti gli ibridi americani, facendone strage. Di fronte all’evidenza che le varietà commerciali non sapevano adattarsi, gli agronomi cercarono e trovarono le varietà resistenti in Africa. La diversità ha salvato l’Europa e gli Stati Uniti. La sola differenza con la grande carestia irlandese è che non ci sono stati milioni di morti, ma sono stati persi miliardi di dollari. Ecco spiegata l’interdipendenza, con l’America Latina che risolve i problemi dell’Europa e con l’Africa che risolve quelli degli Usa. In epoca di cambiamenti climatici, la stabilità e l’uniformità sono un suicidio. Questi casi si sono ripetuti e continuano a ripetersi oggigiorno.

Quali sono le tutele per i contadini dei paesi in via di sviluppo?
Già negli anni ’70 c’era questo grande paradosso, perché la maggiore diversità è nei paesi in via di sviluppo, ma le più importanti banche del germoplasma sono nei paesi sviluppati. A chi appartengono le risorse genetiche? Secondo la legge, al paese che le conserva. C’era allora bisogno di sviluppare un accordo per assicurarsi che questo materiale rimanesse patrimonio dell’umanità, ma anche se così fosse, chi utilizzerebbe le risorse? I paesi ricchi. Per questo parlo di paradosso, perché i paesi più poveri, che fornivamo la materia prima, dovevano successivamente pagare le royalties sulle sementi.
Ora, nel Trattato, abbiamo perso il concetto bellissimo di patrimonio umanità, ma siamo arrivati a un accordo abbastanza buono che comprende il sistema multilaterale per la distribuzione dei benefici, anche commerciali. I guadagni sulle nuove varietà vanno a un meccanismo finanziario internazionale per finanziare progetti a beneficio dei contadini nei paesi in via di sviluppo. Non è stato un obiettivo facile. All’inizio gli Usa si erano opposti, rifiutando il principio per cui le multinazionali dovevano pagare una percentuale sui ricavi. Ricordo che nella fase di stallo furono le stesse multinazionali a dichiarare che avrebbero accettato di pagare una percentuale.

E il fondo funziona?
Deve essere assolutamente migliorato, perché fino ad ora ha racimolato pochi soldi. È un meccanismo molto burocratico e poi bisogna fidarsi della compagnia che comincia a fare i calcoli sulle percentuali solo dopo la commercializzazione della nuova varietà, che spesso avviene dopo circa otto anni dall’acquisizione delle risorse genetiche. In realtà si dovrebbe pagare l’accesso alle risorse e non dover attendere il risultato del lavoro delle aziende. Insomma, un meccanismo auto-regolatore che fino ad ora non ha funzionato bene, tanto che è dovuto essere sostenuto dai fondi volontari dei paesi.

Ci può spiegare in che modo il Trattato è considerato vincolante e perché è importante per agricoltori e consumatori?
Il Trattato è stato ratificato da quasi 150 paesi, fra cui l’Italia. Tutte le nuove legislazioni devono adattarsi. Certo, la concreta applicazione dipende dalle priorità dei paesi. In Italia, per esempio, alcune Regioni hanno deciso di applicarlo in anticipo, senza attendere una legge nazionale.
Per quanto riguarda gli agricoltori, il Trattato rappresenta uno strumento contro lo strapotere delle multinazionali. Riconosce i diritti dei contadini, custodi della diversità biologica agricola e delle conoscenze tradizionali. Nulla si oppone allo scambio, alla conservazione e alla coltivazione di varietà tradizionali. Per quanto riguarda i consumatori, è necessario informarli che senza biodiversità non c’è alcuna tutela per la salute.


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Pubblicazioni di Navdanya a cura di Terra Nuova Edizioni