Un piatto di riso fortificato Golden Rice come prima portata, un secondo a base di Impossibile Burger, un contorno di mozzarella sintetica con verdure sviluppatesi da semi geneticamente modificati. Certo, cercare di vendere un menù del genere non sembra veramente facile. Ma forse, se si spiegasse che la composizione di tale menù è necessaria a tutelare l’ambiente e che è anche benefica per la nostra salute, ecco, in questo caso, forse ci sarebbero più persone disposte ad acquistarlo e ingerirlo. E magari più governi disponibili a finanziare la ricerca privata sull’alimentazione artificiale. Insomma, un menù sì costruito in laboratorio ma ecologico, amico del pianeta e di tutti i suoi abitanti. Una narrazione senz’altro accattivante. Ma si tratta di una narrazione realistica o ci troviamo di fronte all’ennesima operazione di greenwashing utile a nascondere, dietro una patina verde fosforescente, i soliti interessi?
Una cosa si può dire con sicurezza: quella dello sviluppo dell’industria del cibo artificiale, come miglior risposta alle sfide ambientali, è una risposta di parte. E la parte in questione è quella dell’industria dell’alimentazione globale che cerca di rimodulare la sua offerta per intercettare una platea di consumatori sempre più green. Nella consapevolezza che molti di questi consumatori non sono ben informati sull’origine degli attuali disastri ambientali riconducibili, in buona parte, allo stesso club di affaristi che supporta oggi lo sviluppo dell’industria biotech. Ben lungi dal voler ammettere i propri errori e contribuire ai processi di rigenerazione, sembra proprio che Big Food abbia trovato il modo di imporre l’ennesimo set di soluzioni tecnologiche a una serie di problemi innescati dallo stesso modello di agribusiness industriale su cui poggia. Un’operazione commerciale da miliardi di dollari.
Ma se anche fossimo già arrivati al punto di non avere altre soluzioni che non quelle di affidare la nostra alimentazione al cibo artificiale, e per questo dovessimo essere costretti a pagare profumatamente le multinazionali del settore, rimane irrisolta un’altra obiezione: molti degli alimenti sintetizzati nei laboratori si basano su materia prima derivante da un processo agricolo industriale caratterizzato da monocolture intensive, spesso ottenute da semi Ogm e ad alto input chimico. In altre parole, l’encomiabile intento di salvare il pianeta dall’impatto negativo degli allevamenti animali poggia sullo stesso sistema produttivo che sta distruggendo la fauna selvatica, inquinando l’acqua e il suolo, e riscaldando il pianeta. Un circolo vizioso che avrebbe, apparentemente, poco senso se non si considerassero gli attori che si celano dietro tali proposte. Eppure, nonostante le tante contraddizioni, quella del cibo sintetico appare una sfida non impossibile per l’industria che ha deciso di investire massicciamente in questo settore. Non è un caso che gli alimenti artificiali siano entratati di prepotenza nell’agenda del recente Food Systems Summit di New York.
Una scelta ecologica?
Ma partiamo dalla domanda più importante. Il cibo artificiale rappresenta una soluzione reale ai cambiamenti climatici e, in generale, al degrado ambientale? Certo, produrre gli alimenti in laboratorio non comporta lo sfruttamento intensivo diretto di risorse naturali come l’acqua e il suolo. Eppure sono molti gli studi che mettono in dubbio la presunta sostenibilità di questa industria che conta oramai su una galassia di start up capaci di proporre soluzioni tecnologiche sempre più sorprendenti. Molte aziende stanno investendo nella carne cellulare, la così detta cultured meat, “carne coltivata” a partire da vere cellule animali. Una tecnologia che mira a rivoluzionare anche il settore lattiero-caseario con il cosiddetto cultured milk, ovvero il latte coltivato in laboratorio.
L’azienda canadese Better Milk sta investendo massicciamente sulla produzione di latte di mucca utilizzando direttamente le cellule mammarie bovine. Ma c’è anche chi ha già pensato di applicare la stessa logica agli esseri umani. La TurtleTree Labs, una startup con sede a Singapore e negli Stati Uniti, è pronta a lanciare sul mercato lattoferrina umana come primo prodotto commerciale cellulare per neonati. Anche la statunitense Biomilq ha annunciato di esser pronta a commercializzare il primo latte sintetico per bambini coltivato da cellule umane. Un prodotto equiparabile al latte materno? Secondo la compagnia, il bio-latte potrebbe risultare addirittura superiore in quanto “prodotto al di fuori del corpo in un ambiente sterile e controllato, privo delle tossine ambientali, degli allergeni alimentari e dei farmaci da prescrizione che sono spesso presenti nel latte materno”. Considerazione, purtroppo, fondata come dimostrano gli ultimi studi sul latte materno naturale. Una recente indagine interuniversitaria americana ha rilevato la presenza di Pfas nel 100% del latte materno analizzato: tutti i 50 campioni esaminati hanno evidenziato la presenza delle pericolose sostanze chimiche a livelli fino 2 mila volte superiori a quelli considerati sicuri nell’acqua potabile. Eppure, ancora una volta, rimane la sensazione che l’apparato industriale miri sistematicamente a investire su soluzioni tecnologiche per trarre profitto dai problemi da esso stesso creati. Una logica perversa: continuare a inquinare il naturale per poter poi vendere soluzioni artificiali.
Anche gli alimenti artificiali “a base vegetale” si fondano su innovazioni tecniche come la biologia sintetica che comporta la riconfigurazione del Dna di un organismo per creare qualcosa di completamente nuovo, che non si trova in natura. Aziende come Beyond Meat e Impossible Foods usano una sequenza di codifica del Dna tratta dalla soia o dai piselli per creare un prodotto che ha l’aspetto e il sapore della carne vera. Il famoso Impossible Burger è costituito quasi interamente da colture comuni: grano, mais, soia, cocco e patate. Ma un ingrediente chiave, l’eme, la molecola che dà alla carne il suo sapore, non è così facile da ottenere in natura. Motivo per cui viene sintetizzata in laboratorio, come spiega lo stesso Pat Brown, fondatore e ad di Impossible Foods: “Usiamo il lievito geneticamente modificato (con il Dna della soia ndr) per produrre l’eme, la molecola “magica” che rende la carne artificiale saporita e rende l’Impossible Burger l’unico prodotto a base vegetale a fornire la deliziosa esplosione di sapore e aroma che i consumatori carnivori desiderano”.
La carne artificiale è inoltre costituita da proteine e grassi provenienti da piselli, patate, soia, mais coltivati in monocolture basate su quelle stesse lavorazioni pesanti, input chimici e Ogm che stanno compromettendo la biodiversità globale, distruggendo la fauna selvatica, alterando i suoli e inquinando le falde acquifere. Eppure, il primo punto delle campagne di marketing delle aziende di cibo sintetico è, immancabilmente, quello relativo a un impatto ambientale ridotto. Un assunto difficilmente dimostrabile considerando che gli alimenti sintetici a base vegetale si appoggiano sullo stesso identico impianto dell’agricoltura industriale. Non c’è quindi da stupirci se una recente ricerca del Health Research Institute Laboratories ha rintracciato livelli di glifosato (e del suo metabolita Ampa) nell’Impossible Burger pari a 11,3 ppb. Una quantità più che sufficiente ad avere un impatto negativo sul nostro microbiota intestinale e quindi sul nostro sistema immunitario, senza dimenticare la “probabile” cancerogenicità del glifosato dichiarata dallo Iarc e la sua oramai accertata capacità di agire come interferente endocrino.
La sostenibilità del sistema produttivo biotech rispetto a quello tradizionale è stata messa in dubbio da numerosi studi anche da un punto di vista delle emissioni climalteranti. Secondo una recente ricerca, le emissioni di diossido di carbonio, prodotte dal processo industriale della carne sintetica, persistono nell’atmosfera per centinaia di anni a differenza del metano, prodotto dagli allevamenti intensivi classici, che si dissolve nell’atmosfera dopo una decina di anni. Una grande quantità di energia è infatti necessaria per il processo produttivo che comprende varie fasi energivore fra cui il funzionamento del bioreattore, il controllo della temperatura, l’aerazione e i processi di miscelazione. Solo una totale decarbonizzazione dei sistemi energetici potrebbe migliorare questo indicatore, al momento sfavorevole all’industria del Food Tech che, di fatto, non può vantare performance più ecologiche rispetto ai sistemi produttivi tradizionali. Gli alimenti sintetici non sembrano dunque poter legittimamente entrare nella categoria del cibo “eco-friendly” ma piuttosto in quella del cibo ultra-processato, proprio per l’alto grado di lavorazione necessaria.
A differenza dei cibi tradizionali a base vegetale, queste nuove alternative di carne sono dunque cibi ultra elaborati, che i nutrizionisti normalmente raccomandano di evitare a causa dei loro impatti negativi sulla salute. Una recente indagine analizza i nuovi alimenti artificiali proprio dal punto di vista nutrizionale esaminandone i singoli ingredienti. Gli alimenti ultra-lavorati presentano spesso alti livelli di sodio e grassi per essere appetibili, e la carne sintetica non fa eccezione, arrivando addirittura a superare il contenuto di sodio della carne naturale. Gli ingredienti che compongono la carne coltivata sono inoltre purificati ed hanno, al pari di altri alimenti ultra-lavorati, generalmente bisogno di essere integrati con nutrienti e fortificanti. Molti dei nutrienti che si trovano nella carne naturale, come il ferro, lo zinco e la vitamina B-12, sono aggiunti come ingredienti separati nella carne artificiale. Ma questi nutrienti non possono essere assorbiti dai cibi fortificati così bene come lo sono dai cibi interi come carne, noci e semi. Di conseguenza anche il nostro organismo potrà trarre minori benefici da questi nutrienti. Una dieta sana e rispettosa del pianeta, concludono i ricercatori, non richiede nuove tecnologie e non deve includere più prodotti industriali ultra-processati ma si basa piuttosto su un’agricoltura biologica e rigenerativa che offra prodotti sani e nutrienti.
Big food: cibo artificiale, profitto naturale
Non possiamo dunque asserire che il cibo artificiale faccia bene all’ambiente e alla salute dei consumatori. Quello che è però possibile asserire, senza possibilità di smentita, è come faccia bene ai portafogli degli investitori. Le aziende biotech e i giganti dell’agribusiness si stanno infatti costruendo la possibilità di invadere uno dei mercati più promettenti del prossimo futuro: quello del consumo green. Il risultato è un’intera gamma di alimenti come carni, uova, formaggi e latticini sintetizzati in laboratorio.
Il sistema è sempre lo stesso. Quello dei brevetti. Solo per l’Impossible Burger sono ben 14 i brevetti depositati e altri centinaia sono in attesa di essere approvati per altri prodotti commestibili sintetici. Un cambiamento di prospettiva epocale. In primo luogo perché, attraverso la logica dei brevetti, gli animali e i prodotti vegetali continuano ad essere equiparati a elementi usa e getta che possono essere semplicemente sostituiti da tecnologie più efficienti come i prodotti di laboratorio. La profonda relazione dell’uomo con la natura è completamente ignorata. E’ ancora una volta l’ad di Impossible Foods a spiegare bene l’equazione, per chi non la avesse ancora chiara: “Gli animali – sentenzia Pat Brown – sono solo la tecnologia che abbiamo usato fino ad ora per produrre carne. Ciò che i consumatori apprezzano della carne non ha niente a che fare con il modo in cui è fatta. Vivono tranquillamente sapendo che è fatta da animali”.
In secondo luogo, perché continuiamo a perdere il controllo sull’origine e sulla produzione del cibo rinunciando progressivamente alla nostra sovranità alimentare. Il cibo artificiale non si pone come una chiara alternativa per la nostra dieta ma, dissimulando la stessa forma del cibo tradizionale, cerca di insinuarsi subdolamente sulle nostre tavole. Un’operazione di falsificazione a tutti gli effetti che mira a ottenere il controllo sulla nostra dieta rendendola dipendente dalle multinazionali produttrici e detentrici dei brevetti. Concedere il controllo del nostro cibo a poche aziende può avere però un impatto deleterio sui sistemi alimentari locali erodendo la sovranità alimentare della popolazione. Secondo le aziende biotech, la natura e le sue forme viventi non sono altro che una tecnologia esausta, obsoleta: “Se c’è una cosa che sappiamo, – arringa ancora l’ad di Impossible Foods – è che quando una tecnologia antica, non migliorabile, contrasta una tecnologia migliore, che è continuamente migliorabile, è solo una questione di tempo prima che il gioco sia finito”.
Pat Brown, d’altra parte, sembra sapere il fatto suo anche quando dichiara che i suoi investitori vedono chiaramente all’orizzonte “un’opportunità da 3 trilioni di dollari”. E i numeri gli danno ragione. L’industria della biologia sintetica è in piena espansione. Ha raggiunto un valore di 12 miliardi di dollari nell’ultimo decennio e si prevede che raddoppierà entro il 2025 fino a raggiungere gli 85 miliardi nel 2030. Una crescita esponenziale confermata dagli ultimi dati Synbiobeta: il primo quarto del 2021 ha fatto registrare investimenti record in start up per 4,7 miliardi di dollari e per 4,2 miliardi nel secondo quarto. Negli ultimi venti anni il numero di aziende specializzate in questo campo è passato da meno di 100 nel 2000 a più di 600 nel 2019. Beyond Meat è stato uno dei titoli più “caldi” nel 2019. Le azioni dell’azienda di carne a base vegetale sono esplose del 859% durante i suoi primi tre mesi di vita.
E non è certo un caso che, a fianco di giganti industriali come Cargill e Tyson Foods, anche i più grandi filantropi “ambientalisti” stiano investendo in questo settore. Bill Gates ha, per esempio, investito in Impossible Foods, Beyond Meat, Memphis Meats (ora Upside Foods), Motif e Hampton Creek Foods e Biomilq. Un percorso seguito da Richard Branson e Jeff Besos, rispettivamente fondatori di Virgin e Amazon. E ce ne è anche per il Made in Italy. Una start up tedesca, la Formo, ha appena ricevuto un finanziamento record dai suoi azionisti di 50 milioni di dollari per sviluppare su grande scala la produzione di ricotta e mozzarella in laboratorio. Il finanziamento rappresenta un record per una start up del foodtech europeo e invia un chiaro segnale agli investitori e ai mercati di tutto il mondo.
Cibo fortificato e ultra-processato
Il recente Food Systems Summit di New York, tenutosi nello scorso mese di settembre fra le proteste delle associazioni ambientaliste internazionali, è forse il luogo e il tempo dove gli intenti delle multinazionali del cibo hanno trovato la loro migliore espressione. In pagine e pagine di documenti le menzioni relative al biologico o all’agroecologia si contano sulle dita di una mano e, anche quando citate, sembrano svolgere una mera funzione di contorno. Il modello di sviluppo deve rimanere lo stesso, ovvero quello della fallimentare ma remunerativa rivoluzione verde. Anche gli attori coinvolti, ovvero i grandi investitori e le multinazionali dell’agribusiness, devono rimanere gli stessi per continuare a trarre profitti dai nuovi investimenti tecnologici. Ciò che va radicalmente cambiata è, semplicemente, la narrazione. E’ questo l’unico elemento veramente green che si potrà trovare nei piani d’azione dei padroni del cibo. E non si potrà neanche dire che non ci avevano avvertito. Negli Action Track 1 e 2 del Summit, la strategia globale è, tutto sommato, ben spiegata.
L’Action Track 1, denominato “Garantire l’accesso al cibo sicuro e nutriente per tutti”, promuove la fortificazione degli alimenti su larga scala come soluzione alla malnutrizione. La fortificazione alimentare è il processo di aggiunta di sostanze nutritive negli alimenti. Questo procedimento può prevedere anche il ricorso alla biotecnologia e alle modificazioni genetiche. Si tratta di un approccio spesso raccomandato, ed effettivamente messo in pratica, nei paesi in via di sviluppo dove si riscontrano delle carenze nutrizionali. Ampliare e arricchire la dieta, garantendo l’accesso al cibo salubre alla popolazione, potrebbe risolvere molti problemi. Ma le multinazionali del settore pensano che sia più conveniente immettere sul mercato un solo alimento fortificato.
Un esempio classico è quello del Golden Rice, riso geneticamente modificato per contenere livelli di beta-carotene capaci di porre rimedio alle carenze di vitamina A riscontrate nella popolazione. La Bill and Melinda Gates Foundation ha finora elargito 28 milioni di dollari per finanziare il Golden Rice. Un progetto in collaborazione diretta con la Global Alliance for Improved Nutrition (Gain, fondata nel 2001 proprio da Bill Gates). Gain, leader dell’Action Track 1, è stata fra le prime organizzazioni a utilizzare il modello del partneriato pubblico-privato. Da allora, ha continuato a sostenere progetti di biofortificazione per combattere la malnutrizione e l’insicurezza alimentare. Gain condivide anche molti degli stessi donatori di Agra (Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa), come la Fondazione Rockefeller, Bsf o Unilever, e ha ricevuto non meno di 251 milioni di dollari dalla Fondazione di Bill e Melinda Gates tra il 2002 e il 2014.
L’approccio basato sulla fortificazione di un singolo alimento, piuttosto che sull’incremento della varietà e della qualità del cibo disponibile, ha minato, secondo molti osservatori, la capacità delle comunità di rafforzare i sistemi alimentari locali basati sulle conoscenze culturali e tradizionali erodendo così la loro sovranità alimentare. Le politiche di biofortificazione, al pari di altre soluzioni tecnologiche, sono infatti accusate di indurre dipendenza da una manciata di colture di base o da singoli ingredienti aggiunti, ignorando così il ruolo centrale della biodiversità nella nutrizione. La semplice integrazione di un nutriente non sembra poter risolvere il problema della malnutrizione ma sembra poter produrre ottimi margini di profitto per le multinazionali dell’agribusiness.
Uno dei paesi maggiormente coinvolti nei programmi di fortificazione alimentare è il Bangladesh. Una recente analisi dell’attivista Farida Akhter coglie lucidamente le contraddizioni di un approccio che continua a svilupparsi lungo i corrosi binari della rivoluzione verde: “Le coltivazioni di riso in monocoltura, che utilizzano quasi l’80% della terra, stanno causando una carenza nella produzione di altre colture alimentari essenziali necessarie per l’equilibrio nutrizionale. La scarsa diversità alimentare, con il 70% della dieta composta da cereali e l’inadeguato apporto di proteine e micronutrienti, è sotto accusa, ma non si dice come la produzione in monocoltura e l’uso di pesticidi influenzino la disponibilità e la qualità del cibo e della nutrizione. Invece di trasformare l’agricoltura a base di prodotti chimici, vengono offerte come soluzioni alla malnutrizione nuove soluzioni tecnologiche come l’olio commestibile fortificato con vitamina A, riso fortificato con zinco, sale fortificato con iodio. Questi non sono gli unici alimenti che la gente mangia. Un approccio agro-ecologico e basato sulla biodiversità nell’agricoltura per la produzione di cibo risolverebbe la maggior parte dei problemi”.
Esistono molti altri esempi di partnership pubblico-private per modificare geneticamente (o biofortificare) le colture. Per esempio, il sorgo attraverso il progetto Africa Biofortified Sorghum Project e la manioca attraverso il progetto BioCassava Plus in collaborazione con il National Root Crops Research Institute in Nigeria. Entrambi i progetti mirano a migliorare la sicurezza nutrizionale e a correggere le carenze vitaminiche in Africa fortificando le colture di base e integrandole con beta-carotene, che l’organismo converte in vitamina A, ferro e proteine. L’elenco comprende anche la controversa banana OGM, creata dal dottor James Dale della Queensland University of Technology, che ha ricevuto oltre 15 milioni di finanziamenti dalla Fondazione Gates ed è ora in fase di sperimentazione in India e Uganda. Se da un lato l’imposizione di questa coltura geneticamente modificata arricchita di ferro pretende di salvare la vita delle donne, rimediando alle carenze di ferro nelle donne anemiche e prevenendo la morte durante il parto, dall’altro potrebbe contribuire all’erosione della biodiversità in India, che ha sempre avuto un’alto numero di varietà di banane, oltre che di altri alimenti ricchi di ferro.
Inoltre, gli OGM stanno iniziando a essere falsamente equiparati alla biofortificazione, al fine di pubblicizzarli ulteriormente e permettere loro di entrare furtivamente nei nostri alimenti. Ciò è emerso chiaramente in occasione di una riunione del Codex Alimentarius tenutasi in Germania, dove, nonostante l’opposizione della maggior parte dei Paesi presenti, si è registrata una chiara pressione per l’inclusione degli OGM nella definizione di biofortificazione. Inutile dire che una decisione così controversa favorirebbe l’inganno del mercato e denoterebbe una mancanza di trasparenza nella definizione di standard e linee guida alimentari. Se le forze a favore degli OGM potranno continuare a occultare i propri alimenti geneticamente modificati all’interno della definizione di biofortificazione, i consumatori saranno ingannati su scala mondiale e lasciati deliberatamente confusi nel capire se stanno acquistando prodotti biologici o qualcosa di completamente diverso.
Anche l’Action Track 2 del Summit, ovvero “passaggio a modelli di consumo sostenibili”, è basato su soluzioni sulla cui sostenibilità ci sono molti dubbi. Il piano d’azione si basa sostanzialmente sulla promozione di alimenti artificiali e ultra-processati a base vegetale con lo scopo dichiarato di raggiungere la “diversificazione delle proteine”. Un approccio che lascia molti dubbi perché, proprio come nel caso della fortificazione degli alimenti, la semplice aggiunta di proteine isolate, vitamine e minerali alle diete non sembra poter conferire gli stessi benefici per la salute degli alimenti freschi e interi. L’eccessiva lavorazione dei prodotti ha portato, in molti casi, a forti polemiche relative alle tante sostanze chimiche utilizzate tanto che molti di questi alimenti rientrano, in pianta stabile, nella categoria del Junk Food, il cibo spazzatura.
E’ interessante notare che a guidare l’Action Track 2 del Summit, ci sia Eat, organizzazione legata al World Economic Forum e a partner come Nestlé e Danone, entrambi leader nella produzione di alimenti ultra processati. Le raccomandazioni del piano d’azione provengono direttamente dal rapporto Eat-Lancet “Food in the Anthropocene: the Eat-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems”. Un rapporto molto controverso perché, se da un lato invoca la sostenibilità, postulando la trasformazione dei sistemi alimentari attraverso la promozione di “diete sane”, dall’altro lato sorvola sul ruolo diretto dell’agricoltura industriale e chimica nella creazione di sistemi alimentari insostenibili e malsani. Il rapporto non prende mai in minima considerazione che l’adozione di diete sane possa dipendere da un allontanamento dal paradigma dell’agricoltura industriale e dall’adozione di pratiche agroecologiche. Al contrario il rapporto promuove la nozione di “intensificazione sostenibile” degli attuali sistemi alimentari con uno spostamento dell’asse di consumo globale verso alternative “a base vegetale”. Una soluzione che, ancora una volta, rischia di sostituire le diete biodiverse e locali con alimenti sintetici ultra-processati realizzati con tecnologie brevettate altamente vantaggiose solo ed esclusivamente per le multinazionali dell’agribusiness.
Quale futuro per le nostre diete e per il pianeta?
E’ chiaro che sarebbe difficile sedersi oggi, in un ristorante, e ordinare, a cuor leggero, un intero menù composto da cibo artificiale. Eppure, in un prossimo futuro, questa scelta potrebbe non sembrare tanto ardita. Anzi, potrebbe addirittura suonare come una scelta responsabile. In un futuro ancora più lontano, questa potrebbe non essere più una scelta, ma l’unica opzione per non alzarsi da tavola affamati. In questo futuro, forse più prossimo di quanto crediamo, ci potrebbero essere meno scelte rispetto a quante ne abbiamo oggi. Se l’agroecologia e le produzioni biologiche non dovessero essere sostenute adeguatamente, quel futuro, che oggi ci appare distopico, potrebbe effettivamente realizzarsi per mancanza di alternative.
C’è chi potrebbe obiettare: ma le strategie Farm to Fork e Biodiversità dell’Unione Europea non ci chiedono, fra le altre cose, di espandere del 25% la superficie a biologico e ridurre del 50% l’uso dei pesticidi entro il 2030? La risposta è nell’attuazione di tali strategie che dovrebbe avvenire primariamente attraverso una riforma della Pac, la politica agricola dell’Unione che, nel momento dell’allocazione delle risorse, predilige sovvenzionare i grandi produttori convenzionali. Non è infine da dimenticare che la stessa strategia Farm to Fork fa l’occhiolino alle nuove tecniche di manipolazione genetica, ovvero gli Ogm di nuova generazione. Un altro favore alle grande multinazionali del settore che, attraverso le loro pervasive e dispendiose campagne di lobby, riescono a cadere sempre in piedi. E tutto ciò al netto del fatto che le politiche dell’Ue rimangono, e di gran lunga, le più lungimiranti e illuminate su scala planetaria.
Ma se questi sono i grandi movimenti della politica globale cosa accade a livello individuale? Le scelte dei consumatori hanno un impatto consistente sui mercati, come dimostrato dalla crescita del biologico in Italia. Un recente sondaggio Coldiretti/Ixè indica, per esempio, che il 95% degli intervistati boccia la carne sintetica. I consumatori esprimono una istintiva diffidenza nei confronti del cibo sintetico ed è forse questo il motivo per cui c’è bisogno di accompagnare questi prodotti con una narrazione ecologica. Che però fatica a tenersi in piedi da sola. Se è vero che le diete vegetariane e vegane hanno potenzialmente un impatto positivo sull’ambiente è da sottolineare come i surrogati artificiali di carne, uova e formaggi possano non averne. Anzi, ci sono molti elementi che portano a pensare che le industrie biotech non siano affatto sostenibili come pretendono di essere e che siano, piuttosto, nel mezzo di una delle più grandi e promettenti campagne di greenwashing di sempre per intercettare una crescente platea di consumatori che vorrebbe, genuinamente, operare scelte alimentari ecologiche. Si tratta della stessa platea di consumatori che, senza essere sviati dalla narrazione green dell’industria, opterebbe, con tutta probabilità, per un’alimentazione biologica favorendo così la crescita del mercato e quindi dell’offerta. Da questo punto di vista i grandi investimenti nell’industria del biotech e del cibo sintetico potrebbero ulteriormente ritardare quei processi rigenerativi e realmente sostenibili che stanno cercando di emergere, con grande difficoltà, a livello locale in tutto il mondo.
Fonte: Creato in laboratorio: la minaccia del cibo artificiale, Manlio Masucci, Terra Nuova, febbraio 2022