di Alessandra Piccoli – Estratto da NaturaSì Magazine, Gennaio – Febbraio 2020
A Navdanya, che significa letteralmente nove semi, si arriva dalla strada statale che collega la cittadina di Dehradun nello stato di Uttarakhan, nel nord dell’India, alle pendici dell’Himalaya, camminando su un sentiero sterrato all’interno di un frutteto di manghi, alberi maestosi, dalle foglie larghe, capaci di assorbire lo smog della strada statale malamente asfaltata, dove passano in continuazione camion, autobus e automobili di tempi andati, per noi occidentali. Si arriva così a costeggiare un muro in mattoni alto poco più di un metro e mezzo che si apre in un cancello metallico chiuso con un catenaccio e quindi in un secondo cancello che consente di accedere alla fattoria.
La fattoria di Navdanya, voluta e costruita dalla scrittrice e attivista indiana Vandana Shiva, è una fattoria sperimentale, dove si svolgono ricerche sulla fertilità del suolo, sulle varietà antiche di moltissime piante, sulle consociazioni e su tecniche colturali vecchie e nuove, ma è sopratutto un luogo fuori dal tempo, fuori dal tempo contemporaneo dove il cibo è una merce, i semi una proprietà privata, l’acqua uno strumento di potere. A Navdanya non è così, qui i semi vengono salvati, replicati e, sopratutto, donati.
Nella banca dei semi che si trova in un basso edificio a cinquecento metri dal centro dove vivono i bijak, i custodi dei semi, volontari che da tutto il mondo decidono di trascorrere un po’ di tempo lavorando ed apprendendo come salvare la biodiversità, vengono preservate oltre settecento varietà di riso e duecento di grano, oltre a senape, legumi, cereali e diversi ortaggi. La senape, nella mia memoria, è ovunque a Navdanya, come la calendula, forse perchè erano in fiore durante le due settimane che ho trascorso lì lo scorso marzo. E ripensarci fa venire una gran voglia di tornarci, in quel luogo magico fuori dal tempo, dove si tenta di andare contro alla storia, contro alla sua storia, his-story, la storia del patriarcato e del capitalismo, che vorrebbero sottomettere alla logica dell’utilitarismo, del riduzionismo, del profitto, tutto e tutti, sopratutto tutte e tutta, la Natura.
Così mentre ero lì mi è capitato di fare una passeggiata nella foresta, che si stende dai confini della tenuta in uno spazio per me indefinito. Non si tratta di un bosco come ero abituata a vederlo, con conifere, abeti, querce, e un fitto sottobosco. Qui il sottobosco è pressoché assente, lavato via dalle piogge monsoniche ed estirpato dagli animali domestici, mucche e bufali prevalentemente, che vi vengono portati a pascolare dai senza casta, gli ultimi della piramide sociale indiana. Dalla foresta gli abitanti locali traggono ovviamente il legname per scaldarsi e ho potuto vedere giovani ragazzi arrampicarsi a quindici metri e più per tagliare i rami più alti da alberi ormai ridotti a colonne altissime e spoglie. Dalla foresta un tempo si ricavava anche molto altro, bacche, semi, frutti di varia natura. Ma oggi la foresta è costituita da una sola varietà arborea, secondo le previsioni dell’allora governo britannico che fin dalla fine del diciannovesimo secolo ha imposto una gestione razionale della risorsa boschiva, che assicurasse legnami pregiati per l’industria navale e militare di Sua Maestà. Nonostante tanta buona volontà, qualche esempio di vita selvatica è rimasta, e può succedere di imbattersi in un gruppo di scimmie, somiglianti al Signor Nielson di Pippi Calzelunghe.
A Navdanya ha sede l’Università della Terra, che promuove l’idea di una democrazia della Terra, basata sull’aspirazione di costruire il vivere comune attraverso democrazie viventi, economie viventi e culture viventi. Una sorta di articolazione in tre parti, distinte ma interconnesse, una triarticolazione, in sostanza. E perchè questo possa realizzarsi propone una presa di coscienza da parte delle comunità, piccoli gruppi coesi a livello locale, della necessità di perseguire quanto proposto da Gandhi già sul finire degli anni Venti: sovranità (swaraj) dei semi (bija), del suolo e della terra (bhu), del cibo (anna), dell’acqua (jal), delle foreste (van), dell’aria (vayu) e della conoscenza (gyan). Un modo di vivere che renda le comunità libere di decidere come amministrare le proprie risorse vitali, in quelli che altrove sarebbero chiamati organismi.
Perchè tutto questo possa diventare reale, molte persone lavorano nel centro. L’attività svolta dai bijak e dai lavoratori stipendiati è di duplice natura. Da una parte si occupano della coltivazione delle diverse varietà vegetali per assicurare un continuo rinnovamento dei semi e per sviluppare nuove conoscenze sulle consociazioni, sulla risposta a diverse tecniche colturali, l’incidenza di compost derivanti da composizioni variabili e tutto quello che riguarda la cura della terra. Dall’altra vi è una continua azione educativa ed auto-educativa. Ogni giorno i bijak partecipano a sessioni di studio, workshop pratici e momenti di riflessione comunitaria, oltre al cerchio del mattino durante il quale pregano, se lo desiderano, praticano la meditazione e condividono la programmazione della giornata. Altrettanto importante è però l’organizzazione di momenti formativi destinati a persone esterne. Ogni tre mesi si svolge a Navdanya un incontro dei contadini e delle contadine che, aderendo alla rete di Navdanya, hanno deciso di liberarsi dal giogo delle multinazionali delle sementi e dei prodotti agrochimici. Qui trovano l’occasione di accedere alle conoscenze agroecologiche che permettono loro di ripristinare la fertilità delle loro terre, di coltivare in modo sostenibile ma efficace e di riprodurre i semi anziché comprarli ogni anno. Un paio di volte l’anno poi si tengono seminari pensati per gli occidentali, per renderli consapevoli di quanto pesa sulla Terra e sui suoi figli più deboli il nostro benessere. Seminari come quello sull’ecofemminismo, a cui ho preso parte durante il mio soggiorno. Ma questa è un’altra storia.