Home > Notizie > i nostri articoli > La Libertà dei Semi e il futuro dell’agricoltura

Intervista a Vandana Shiva – Roar magazine, 27 dicembre 2017

In un’epoca di cambiamenti climatici, l’utilizzo di conoscenze e competenze ecologiche per rinnovare e rigenerare la fertilità del suolo è di vitale importanza per garantire la sopravvivenza della specie umana.

Vandana Shiva è una studiosa di fama mondiale, attivista ambientalista e autrice di più di 20 libri. Ha collaborato con i movimenti popolari di tutto il mondo contro l’ingegneria genetica ed ha condotto con successo molteplici campagne contro quelle multinazionali e istituzioni internazionali che cercano di monopolizzare e privatizzare i semi indigeni, la conoscenza tradizionale e le risorse naturali.

Joris Leverink, editore di ROAR, ha parlato con Vandana Shiva riguardo al ruolo dell’agricoltura industriale nei cambiamenti climatici, le sfide poste agli agricoltori del Sud del Mondo ed anche su come evitare l’imminente disastro ambientale che minaccia la nostra esistenza sul pianeta.


ROAR: Per molti anni ha resistito in modo attivo, sia tramite i suoi scritti sia nel suo attivismo, alla trasformazione globale dell’agricoltura da un modello agro-ecologico a un modello industriale. Nel suo ultimo libro, “Who Really Feeds the World?” (Chi nutre veramente il mondo? – Zed Books, 2016), ha anche sottolineato che “il modello dell’agricoltura industriale sta causando il cambiamento climatico.” Come possiamo concettualizzare la differenza tra i due modelli di agricoltura, e qual è il ruolo di quest’ultima nel cambiamento climatico?

Vandana Shiva: Ci troviamo di fronte a due visioni molto diverse, quando parliamo di agricoltura. Il modello dominante dell’agricoltura industriale è stato concepito e pianificato intorno alle esigenze di profitto delle aziende chimiche che, in tempi di guerra, producevano esplosivi, gas per i campi di sterminio e altri prodotti di morte quali l’Agente Arancio. Dopo le guerre, queste stesse aziende, che noi chiamiamo il “Cartello Dei Veleni”, hanno riproposto quegli gli stessi prodotti chimici nelle forme di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti per l’agricoltura. Un enorme sforzo propagandistico è stato messo in atto per convincerci che non è possibile coltivare senza utilizzare questi veleni.

Il secondo modello è invece un sistema basato sul rispetto degli ecosistemi, su un approccio ecologico in armonia con la natura, che si è evoluto nel corso di 10.000 anni.

Ci sono dunque due futuri possibili per il cibo e per l’agricoltura. Uno porta ad un vicolo cieco: ad un pianeta esanime ed avvelenato quale risultato delle monocolture chimiche, con agricoltori che arrivano a suicidarsi per fuggire dalla miseria indotta dai debiti, con bambini che muoiono a causa della mancanza del cibo e persone che soffrono di malattie croniche causate dalla diffusione di cibi nutrizionalmente vuoti, merci tossiche vendute come cibo, mentre le devastazioni climatiche annientano la vita umana sulla terra. Il secondo modello porta alla rigenerazione del pianeta tramite il ripristino della biodiversità, del suolo, dell’acqua, del ruolo dei piccoli agricoltori che producono cibo biodiverso, salutare, fresco ed ecologico, cibo per la comunità.

L’agricoltura industriale contribuisce a gran parte del problema del cambiamento climatico. Alcuni stimano che almeno il 25% dei gas serra siano da collegare al sistema di produzione alimentare industriale: anidride carbonica (CO2) dall’utilizzo di combustibili fossili, ossido di azoto (N2O) dall’uso di fertilizzanti chimici e metano (CH4) dagli allevamenti industriali.

Secondo il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata da una concentrazione di circa 280 parti per milione nell’era pre-industriale, a circa 403,3 parti per milione nel 2016, quale risultato di attività umane. I livelli di concentrazione attuale hanno corrispondenza in un’altra epoca: 3,5 milioni di anni fa, quando la temperatura globale era di 2-3 gradi più elevata e il livello dei mari 10-20 metri più alto. La concentrazione di metano nell’atmosfera è aumentata da 715 parti per miliardo dell’era pre-industriale a 1.774 parti per miliardo nel 2005. La concentrazione globale di ossido di azoto – dovuta soprattutto all’utilizzo di fertilizzanti chimici in agricoltura – è aumentata da circa 270 parti per miliardo a 319 parti per miliardo nel 2005.

L’estrazione di combustibili fossili (carbonio inerte) dalla terra, per bruciarli e così rilasciare livelli incontrollabili di emissioni nell’atmosfera, ha spezzato il ciclo del carbonio e alla destabilizzazione dei sistemi climatici. Per fissare più carbonio vitale dall’atmosfera nel suolo, abbiamo bisogno di intensificare biologicamente le nostre fattorie e le nostre foreste, in termini di biodiversità e biomassa. Più facciamo crescere la diversità e la biomassa, più le piante fissano il carbonio e l’azoto atmosferici, e riducono sia le emissioni sia la quantità di sostanze inquinanti in atmosfera. Il carbonio viene restituito al suolo attraverso le piante. Ecco perché è davvero stretto il legame fra biodiversità e cambiamenti climatici.

ROAR: Ha detto che “il futuro è nel suolo”. Che cosa intende con questa frase? E quali, dal suo punto di vista, sono le lezioni principali che possiamo attingere dalla conoscenza indigena e dalle pratiche agricole tradizionali per affrontare la crisi ecologica del nostro tempo?

Noi siamo il suolo. Noi siamo la terra. Siamo fatti degli stessi cinque elementi – terra, acqua, fuoco, aria e spazio – che costituiscono l’universo. Qualsiasi cosa facciamo al suolo, la facciamo a noi stessi. Non è una coincidenza infatti che le parole “humus” e “umano” abbiano la stessa radice etimologica. Tutte le culture indigene riconoscono che siamo una cosa sola con la Terra, e che prenderci cura del suolo è il nostro dovere più alto. Le antiche scritture “veda” si esprimono così a riguardo: “In questa manciata di terra risiede il vostro futuro. Prendetevene cura ed essa si prenderà cura di voi. Distruggetela, ed essa vi distruggerà”.

Queste semplici verità ecologiche sono state dimenticate dal paradigma dominante dell’agricoltura industriale, che viene applicato in base alla falsa premessa che noi siamo entità separate ed indipendenti dalla Terra e che definisce il suolo come materia inerte. Partendo dall’erroneo presupposto che il suolo sia inerte, è automatico pensare che le attività umane non possano distruggerne la vita, ma solo “migliorare” il terreno per mezzo di fertilizzanti chimici. Considerare la razza umana quale dominatrice e conquistatrice del suolo ci rassicura sul fatto che il suolo non può determinare il nostro destino, mentre noi possiamo determinare il destino del suolo.

La storia è testimone del fatto che il destino delle società e delle civiltà è intimamente connesso col modo come trattiamo il suolo e come ci relazioniamo ad esso. Possiamo scegliere se relazionarci al suolo tramite la Legge del Ritorno o tramite la Legge dello Sfruttamento e dell’Estrazione. La Legge del Ritorno – del restituire – ha fatto sì che le società creassero e mantenessero suoli fertili e fossero sostenute da suoli viventi per migliaia d’anni. La Legge dello Sfruttamento – del prendere senza restituire – ha portato al crollo delle civiltà.  Le civiltà che hanno ignorato la salute e il bene del suolo, sfruttandolo senza rinnovarne la fertilità, sono scomparse. Società contemporanee di tutto il mondo sono sull’orlo dell’abisso perché i suoli sono erosi, degradati, avvelenati, sepolti dal cemento e privati della vita.

L’agricoltura industriale, basata su un paradigma meccanicistico e sull’uso di combustibili fossili ha rivelato la propria ignoranza e cecità riguardo ai processi vitali che stanno alla base del suolo, in quanto organismo vivente. Invece di comprendere la rete infinita dei microorganismi del suolo, si è concentrata sul riversarvi input esterni nella forma di fertilizzanti chimici per creare un sistema meccanizzato e basato su monocolture. La biologia è stata rimpiazzata totalmente dalla chimica. Le monocolture espongono il suolo ai fenomeni atmosferici, e di conseguenza all’erosione provocata dal vento e dalle precipitazioni, che diventa anche maggiore a causa della mancanza materia organica, che fungerebbe da aggregante e che viene annientata dalle sostanze chimiche.

Terreni degradati e privi di vita, privi di materia organica, di microorganismi, di capacità di contenere l’acqua, sono la causa di carestie e crisi alimentari, non della sicurezza alimentare promessa dall’agricoltura industriale. Ciò è particolarmente vero nel caso della crisi del cambiamento climatico. Non solo l’agricoltura industriale è responsabile per quasi un quarto dei gas serra che provocano i cambiamenti del clima, ma ne subisce anche le conseguenze dirette. Incrementare la materia organica del suolo attraverso pratiche di intensificazione della biodiversità è il modo più efficace per estrarre l’anidride carbonica dall’atmosfera, attraverso le piante e poi nel suolo stesso, per mezzo della Legge del Ritorno.

Il suolo, non il petrolio, sta alla base del futuro dell’umanità. L’agricoltura industriale, basata sul petrolio, sull’uso intensivo di combustibili fossili e sostanza chimiche ha provocato conseguenze sul piano ecologico e sociale, che stanno uccidendo il suolo e mettendo a rischio il futuro dell’umanità.

ROAR: Chiaramente si sta rendendo necessario il fatto di vedere chiaramente quale sia l’immenso potere delle maggiori multinazionali agricole e agrochimiche, che ricevono anche un appoggio significativo da parte degli stati più potenti del mondo. La lotta dei piccoli agricoltori contro le multinazionali, come Monsanto, sembra un tipico caso di David contro Golia. Dove pensa che porterà questa battaglia così sproporzionata in termini di potere? Dove vede la speranza? Vede emergere  qualche opportunità perché le società possano riprendere il controllo sui loro sistemi di produzione del cibo, di fronte a questa vasta concertazione di capitali nel settore agricolo?

Il Cartello dei Veleni, che attraverso una serie di fusioni si sta restringendo a tre entità: Monsanto e Bayer, Dow e Dupont, Syngenta e ChemChina, originariamente produceva sostanze chimiche per l’industrial bellica, come i gas usati nei campi di sterminio nazisti. Dopo la guerra, le stesse sostanza chimiche utilizzate per sterminare esseri umani, furono riproposte come pesticidi per l’agricoltura industriale. Le stesse aziende chimiche divennero anche le industrie sementiere che hanno tentato di prendere il controllo sui semi negli ultimi decenni, tramite brevetti e diritti di proprietà intellettuale applicati all’ingegneria genetica.

Abbiamo però un modo per riprenderci i nostri semi, mettendo in atto ciò che serve a garantire che restino liberi, nelle mani degli agricoltori, invece che sotto il controllo di un sistema che vede i semi come proprietà intellettuale delle multinazionali. Ogni luogo e ogni pasto può essere un atto rivoluzionario contro il Cartello dei Veleni, responsabile di un secolo di ecocidio e genocidio. E’ giunto il momento di diffondere semi di pace con la terra e di rivendicare la nostra libertà. Praticare il “Satyagraha”, o “forza della verità”, o disobbedienza civile nell’accezione del Mahatma Gandhi, è di vitale importanza in questa epoca di “post-verità” e manipolazione dell’informazione. Il Satyagraha riguardava, ed ha sempre riguardato, il risveglio delle coscienze, del nostro potere interiore, quale strumento per resistere attacchi brutali. E’ una risposta auto poietica ad un sistema ingiusto e crudele imposto dall’esterno. Come diceva Gandhi: “Satyagraha è un ‘No’ che nasce dalle nostre coscienze elevate”.

Il Satyagraha che Gandhi praticò per rivendicare l’accesso al sale nel 1930 ha ispirato Navdanya a dare inizio all’attuale Satyagraha per i semi e il movimento per la Libertà dei Semi. Nel 1987, quando per la prima volta sentii le multinazionali dichiarare le loro intenzioni di appropriarsi dei semi per mezzo di diritti di proprietà intellettuale, decisi in coscienza di non poterlo accettare. Ho preso l’impegno di conservare i semi per tutto il corso della mia vita e di non cooperare con il regime dei diritti di proprietà intellettuale che criminalizza la conservazione e lo scambio dei semi.

Bija Satyagraha, o Satyagraha per i semi, è un movimento della gente per la rinascita dei semi “veri”, che devono essere selezionati e conservati dagli agricoltori, che da sempre hanno compreso come co-evolvere con i semi stessi per svilupparne la diversità, la resilienza e la qualità. E’ un movimento che nasce dalla consapevolezza che esistono leggi moralmente più elevate, che ci definiscono membri della comunità terrena “Vasudhaiva Kutumbkam” che hanno il dovere di prendersi cura, di conservare, di condividere. L’impegno solenne che prendono i nostri agricoltori quando scelgono di aderire al Bija Satyagraha, dice così: “Abbiamo ricevuto questi semi dalla natura e dai nostri antenati. E’ nostro dovere verso le generazioni future passarli nelle loro mani, completi della stessa integrità, ricchezza e diversità che avevano quando sono stati dati a noi. Perciò non obbediremo a nessuna legge, non utilizzeremo nessuna tecnologia che dovesse interferire con questo nostro dovere morale verso la Terra e le generazioni future. Continueremo a conservare e a scambiare i nostri semi.”

Nel corso degli ultimi 45 anni ho preso parte a molti Satyagraha e lavorato per ciò che considero la vera libertà: la libertà della natura e la libertà degli “ultimi” della società. Il mio impegno verso le nostre libertà comuni non fa che accrescersi con il tempo. Il Satyagraha globale di cui avremmo bisogno oggi è che ognuno di noi scegliesse di liberarsi dalle illusioni consumistiche in cui l’1 per cento dell’umanità – i super ricchi – vorrebbe imprigionarci, e di utilizzare al meglio la nostra intelligenza e potere interiore per rivalutare il nostro rapporto con la terra e con gli altri esseri umani per un nuovo Risorgimento di ciò che veramente conta per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità.

L’Odierno movimento di non-cooperazione inizia con il non aderire alle falsità della nuova colonizzazione corporativa e con il non cooperare con le strutture portatrici di violenza e dominazione che sono state costruite su queste falsità. Liberarsi dal giogo dell’ 1 per cento è il Satyagraha del nostro tempo. Un Satyagraha per restare vivi e celebrare i veri valori morali, il giusto cammino (Dharma) su cui basare le nostre vite, che includa un concetto di libertà basato sulle leggi della terra, di Gaia, dell’umanità.

ROAR: Lei sottolinea spesso la relazione tra brevetti sui semi – che li trasformano in merci soggette alle normative della proprietà privata – e l’indebitamento degli agricoltori locali, che solo in India ha portato il numero di suicidi a più di 300.000. Potrebbe aggiungere qualche parola riguardo l’impatto che le logiche del capitalismo hanno avuto sulla produzione del cibo nel sud del mondo, e quali conseguenze sociali hanno portato?

L’India è un territorio molto ricco in biodiversità. Per più di 10.000 anni gli agricoltori indiani hanno fatto ricorso alle proprie conoscenze e genialità per sviluppare migliaia di specie vegetali commestibili, comprese 200.000 varietà di riso, 1.500 varietà di grano, 1.500 varietà di banane e mango, centinaia di specie di legumi e semi oleosi, varietà di miglio e pseudo-cereali, verdure e spezie di ogni tipo.

Sia la conoscenza sia la capacità di sviluppare diverse varietà furono bruscamente interrotte quando la Rivoluzione Verde fu imposta in India negli anni ’60 dalle industrie chimiche che, alla fine della seconda guerra mondiale, stavano disperatamente cercando nuovi mercati per i fertilizzanti chimici prodotti per l’industria bellica dalle fabbriche di esplosivi. Con un atteggiamento simile a quello già subito ai tempi della colonizzazione del passato, le nostre conoscenze in agricoltura e nella selezione e sviluppo delle varietà di semi sono state negate, i nostri semi sono stati definiti “primitivi” e sono andati persi per la gran parte. Furono imposte conoscenze diverse, basate su un concetto meccanicistico di selezione industriale finalizzata all’uniformità e all’utilizzo di input esterni. Invece di continuare a sviluppare e diverse varietà di diverse specie, la nostra agricoltura e la nostra dieta furono ridotte a riso e grano.

Le multinazionali del settore sviluppano e selezionano semi che rispondano alle sostanze chimiche che esse stesse producono. Le sostanze chimiche necessitano di monocolture per funzionare al meglio e per ottimizzare i costi. Queste stesse monocolture sono anche più vulnerabili agli stessi cambiamenti climatici di cui l’agricoltura industriale è in gran parte responsabile.

Il Cartello dei Veleni diede inizio all’ingegneria genetica applicata ai semi perché vide l’opportunità di riscuotere royalties dagli agricoltori attraverso il meccanismo dei brevetti sull’uso dei semi ratificato nei trattati di libero commercio. Come disse un funzionario della Monsanto in riferimento alla fase della stesura delle normative relative ai diritti di proprietà intellettuale sulle forme di vita: “Noi fummo contemporaneamente il paziente, il diagnosta e il medico curante”. Il problema che “diagnosticarono” era il fatto che gli agricoltori sono soliti conservare i propri semi. Il caso relativo alla Monsanto e ai suoi semi di cotone ogm “Bt” fornisce un esempio molto chiaro. Al fine di costringere gli agricoltori ad utilizzare i semi Bt, la Monsanto ha imposto un monopolio sul mercato nazionale che ha loro impedito di accedere a semi di cotone che non fossero Bt. Ad oggi, il 99% del cotone coltivato in India è Bt. Nel mentre, la Monsanto ha aumentato i prezzi dei semi di circa l’8.000 per cento, costringendo gli agricoltori a contrarre grossi debiti solo per poter acquistare le risorse base per poter coltivare.

Il cotone Bt – venduto in India sotto il nome Bollgard – fu pubblicizzato come resistente agli attacchi dei parassiti, eliminando così la necessita di utilizzare pesticidi. Ma i parassiti hanno sviluppato resistenza al cotone Bt nel corso del tempo, risultando in un aumento dell’uso di pesticidi fino a tredici volte in alcuni stati indiani. Ciò ha causato la morte di centinaia di agricoltori per avvelenamento da pesticidi, mentre molti altri si sono suicidati a causa dell’impossibilità di pagare i debiti.

La sovranità degli agricoltori sulle risorse di cui necessitano è la questione chiave per risolvere il problema dell’epidemia di suicidi dei contadini indiani. Solo quando i contadini avranno di nuovo accesso ai propri semi, saranno in grado di liberarsi dal problema dei debiti. Solo grazie alla sovranità sui semi il loro reddito potrà aumentare. Gli agricoltori che producono cotone biologico guadagnano di più, non dovendo acquistare semi e prodotti chimici costosi. Se c’è un futuro per i contadini indiani è nel cotone biologico.

ROAR: Le persone che vivono nel sud del mondo – specialmente coloro la cui vita dipende direttamente dalle risorse dell’ambiente naturale circostante – sono affette dagli effetti dei cambiamenti climatici in modo sproporzionato rispetto agli abitanti dei paesi industrializzati. Dal suo punto di vista, quale azione immediata potrebbe essere presa per poter minimizzare la minaccia che i cambiamenti climatici pongono a queste popolazioni vulnerabili, considerando che i governi dei paesi più ricchi del mondo non appaiono interessati a modificare i propri comportamenti?

Tragicamente, coloro i quali in minor parte hanno contribuito alle emissioni dei gas serra, sono quelli che maggiormente soffrono delle conseguenze del caos climatico. Ci sono comunità nelle zone più impervie dell’Himalaya che hanno perso le loro risorse d’acqua a causa dello scioglimento dei ghiacciai, comunità agricole nel bacino del Gange che hanno perso i loro raccolti a causa della siccità o di inondazioni, comunità costiere e isolane che devono fronteggiare l’innalzamento del livello del mare e l’intensificarsi dei cicloni.

Il cambiamento climatico, eventi atmosferici estremi e disastri naturali stanno accadendo sempre più di frequente a ricordarci che noi siamo parte integrante della Terra, non separati da essa. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici diventa una minaccia alle nostre vite. Ognuno di noi, in quanto “cittadino della Terra” può agire in modo da proteggerla. L’agricoltura industriale contribuisce a gran parte della crisi del cambiamento climatico. Una trasformazione verso l’agricoltura ecologica è vitale per preservare la nostra salute, la salute del pianeta, la giustizia climatica e la Democrazia della Terra. Per questi motivi, durante il meeting internazionale sul cambiamento climatico (Cop21), svoltosi a Parigi nel dicembre 2015, ci siamo riuniti con vari movimenti ecologisti per piantare insieme un “Giardino di Speranza” e sottoscrivere un patto collettivo per proteggere la Terra. Ogni giardino, anche se piccolo, ha un grande valore, se milioni di noi si impegnano nel dare inizio al superamento della dipendenza dai combustibili fossili e nel lasciare il carbonio “vivo” nel suolo a cui appartiene. Il carbonio vivo può essere coltivato e rigenerato e dobbiamo prendercene cura perché può risanare la terra, creare resilienza climatica e rinnovamento della biodiversità e del suolo.

ROAR: Il genere umano ha recentemente passato la soglia in cui più di metà popolazione mondiale vive in aree urbane. Ciò sembra creare un conflitto tra i benefici ambientali dei piccoli agricoltori ecologici, e il bisogno di sfamare la popolazione di milioni di persone che non possono – e di solito non vogliono – coltivare il loro cibo nel loro ambiente circostante. Come potremmo risolvere questo paradosso?

La necessità di proteggere l’ambiente e di assicurare il fabbisogno alimentare di tutti noi non sono necessariamente in contrasto. Il sistema industriale che sta distruggendo l’integrità del nostro ecosistema è anche causa di fame, malnutrizione e malattie. L’agricoltura industriale ha chiaramente fallito come sistema alimentare. In risposta al mito che afferma che l’agricoltura su piccola scala deve essere eliminata perché improduttiva e che dovremmo lasciare il futuro dell’alimentazione nelle mani dei produttori dell’agrochimica e dell’agricoltura informatizzata, è stato riscontrato che i piccoli agricoltori producono il 70 per cento del cibo, utilizzando solo il 30 per cento delle risorse per l’agricoltura a livello globale. L’agricoltura industriale, invece, utilizza il 70 per cento delle risorse per produrre un quarto dei gas serra e solo il 30 per cento del cibo. Il modello agricolo basato sulla concezione del cibo come “merce” ha causato la distruzione del 75 per cento del suolo, del 75 per cento delle risorse idriche, inquinando laghi, fiumi e mari. Infine, come ho dimostrato nel mio libro “Who really Feeds the World? (Chi nutre veramente il pianeta?) – Zed Books, 2016, questo modello ha causato anche la distruzione del 93 per cento della diversità delle colture e le sta spingendo la biodiversità delle specie vegetali agricole verso l’estinzione.

A questo ritmo, se nelle nostre diete la percentuale di cibo proveniente dall’agricoltura industriale aumentasse del 45 per cento, assisteremmo alla fine della vita – e del cibo -sul nostro pianeta. Per questo il rinnovamento e la rigenerazione del pianeta per mezzo di pratiche ecologiche sono diventati un imperativo categorico per la sopravvivenza della specie umana e di tutte le specie viventi. Il punto centrale della transizione è l’abbandono dei combustibili fossili e del carbonio “morto” e l’adozione di processi vitali basati sull’incremento e sul riciclo del carbonio vivo.

Il lavoro di Navdanya degli ultimi 30 anni ha dimostrato che possiamo coltivare maggiori quantità di cibo e assicurare un reddito migliore agli agricoltori senza distruggere l’ambiente e le comunità rurali. Il nostro studio “Biodiversity-based Organic Farming: A New Paradigm for Food Security and Food Safety (Agricoltura biologica basata sulla biodiversità: un nuovo paradigma per la sicurezza alimentare)”, ha stabilito che le piccole aziende agricole che praticano agricoltura biologica e proteggono la biodiversità producono più cibo e garantiscono introiti più elevati agli agricoltori.

Inoltre l’agricoltura ecologica basata sulla biodiversità e i sistemi alimentari locali hanno un ruolo fondamentale nell’adattamento ai cambiamenti climatici,oltre a contribuire mitigarli. Le piccole fattorie ecologiche – specialmente nei paesi del terzo mondo – non fanno ricorso alcuno ai combustibili fossili. L’energia per l’operatività del lavoro nei campi è data dagli animali e la fertilità del suolo è garantita dal continuo riciclo di materia organica a nutrimento dei microrganismi del suolo. Queste pratiche riducono le emissioni di gas serra. I sistemi basati sulla biodiversità sono inoltre più resilienti ed adattabili a siccità, inondazioni e cambiamenti climatici, perché hanno maggiore capacità di trattenere l’acqua nel suolo. Lo studio di Navdanya sul cambiamento climatico e l’agricoltura biologica indica che quest’ultima può incrementare l’assorbimento di carbonio fino al 55 per cento e la capacità di trattenere acqua del 10 per cento. La mitigazione del cambiamento climatico e la conservazione della biodiversità possono evolvere assicurando inoltre maggiore sicurezza alimentare. Trent’anni di Navdanya hanno dimostrato che con l’utilizzo di semi autoctoni e la pratica dell’agroecologia, i piccoli agricoltori indiani possono produrre abbastanza cibo sano e nutriente per due volte la popolazione dell’India. Senza fare ricorso a input chimici esterni o a semi ogm essi possono aumentare il proprio reddito di dieci volte e mettere fine alla crisi dei suicidi tra gli agricoltori. Un’India libera da veleni, da debiti, da suicidi, da fame e malnutrizione è lo scopo del mio lavoro.


Illustration by Luis Alvés – Photo by Rahul Dsilva/Shutterstock.com

Extract from Roar Magazine Issue no. 7


Translation kindly provided by Elisa Catalini and Marianna di Grado