E’ significativo che in un momento storico in cui si richiede a gran voce un cambio di paradigma economico a livello globale, a causa dell’evidente e documentato fallimento dell’attuale sistema di produzione, del commercio globale e della distribuzione che ci sta conducendo alla catastrofe ambientale e climatica, lo stesso apparato produttivo costituito da enormi interessi corporativi, difesi da lobbisti lautamente pagati per diffondere false informazioni, cerchi, con malcelata preoccupazione, di porsi in polemica con il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Il ministro ha infatti annunciato di volersi dotare di un consiglio scientifico sullo sviluppo sostenibile che prevede la presenza di personalità riconosciute a livello internazionale come Enrico Giovannini, Jeffrey Sachs e Vandana Shiva. Una scelta molto preoccupante per coloro i quali hanno tutto l’interesse a impedire ogni cambiamento.
Una scelta coerente con le posizioni già espresse dal ministro e con le stesse richieste degli italiani. Nella lettera inviata agli studenti in vista del prossimo sciopero per il clima del 27 settembre, Fioramonti ha infatti reso nota la propria posizione a favore di un’economia sostenibile, riconoscendo che il nostro modello di sviluppo ci sta distruggendo e deve essere cambiato il prima possibile. Ed è una posizione che risponde alle aspettative dell’89% degli italiani che secondo un recente sondaggio crede che il riscaldamento globale sia un’emergenza mentre il 67% non crede che il governo stia facendo abbastanza per affrontare il cambiamento climatico. Ambiente ed ecologia devono necessariamente far parte dei programmi di istruzione scolastica se vogliamo salvare il pianeta e la nostra società.
Tanto basta a mettere il sistema dell’establishment sulla difensiva. Ancora una volta la macchina del fango, di cui oramai si conoscono i prevedibilissimi meccanismi, evita di menzionare le criticità e le possibili soluzioni a problemi riconosciuti da tutte le maggiori istituzioni internazionali a partire dalle Nazioni Unite. Al contrario, ma questa è una prassi consolidata, si decide di attaccare le individualità che si fanno portavoce di un modello di sviluppo alternativo, più equo ed inclusivo dal punto di vista sociale e rispettoso dell’ambiente. Ci troviamo di fronte ad un arroccamento di fronte al pericolo che una riformulazione del paradigma economico possa intaccare interessi di parte ed equilibri di potere che non hanno fatto altro, fino ad oggi, che aumentare le diseguaglianze sociali e aggravare la crisi ambientale e sanitaria, sia in Italia che all’estero.
Di fronte agli attacchi di certa stampa e di certi istituti “specializzati” legati ad interessi di parte, basterebbe rispondere con dati tratti da fonti ufficiali. Ma non crediamo sia questo il punto. Specialmente dopo lo scandalo dei Monsanto Papers che ha svelato al mondo il modo in cui le multinazionali attacchino sistematicamente giornalisti e scienziati non allineati per proteggere i propri interessi. Crediamo che invece sia importante sottolineare la logica di tali manovre che avvengono, non a caso, all’indomani del summit di New York, dove Greta Thunberg ha affrontato i leader mondiali mettendoli di fronte alle loro responsabilità: “Ci troviamo di fronte ad un’estinzione di massa e tutto ciò di cui siete in grado di parlare è il denaro e la favola dell’eterna crescita economica. Come osate!”
La visione della globalizzazione e del capitalismo corporativo considera il pianeta come un deposito di risorse illimitate da sfruttare per creare ricchezza. Il criterio di valutazione che viene utilizzato per la salute dell’economia è però la “crescita”, rappresentata da numeri anonimi che nulla ci dicono riguardo le condizioni reali del benessere. Il sentimento di oltraggio e impazienza espresso da Greta è lo stesso che deve animare oggi la buona politica. Abbiamo solo 11 anni per invertire la tendenza, secondo il recente rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC). Il cambiamento è possibile ma prima di tutto bisogna riconquistare proprio quella scienza di cui i negazionisti e i detrattori si riempiono la bocca, accusando, paradossalmente, chi va contro i loro interessi di parte di essere “antiscientifici”. Ma come diceva Albert Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato.
Per la cronaca la scienza ci dice che tra il 25 e il 30% delle emissioni sono provocate dall’attuale sistema agroalimentare che a sua volta inquina le falde acquifere con prodotti chimici considerati probabili cancerogeni dallo Iarc. Il cibo prodotto in questa maniera, trasportato lungo le estese e poco sostenibili filiere (in cui si perde il 30% del prodotto) risulta a sua volta dannoso per la salute umana. Secondo i dati della Fao un terzo del valore del prodotto va perso in costi sociali. Mentre è stato calcolato il valore globale della produzione alimentare a 2.800 miliardi di dollari, i costi ambientali sono stati calcolati a 3.000 miliardi di dollari, a cui ne vanno aggiunti altri 2.800 per costi legati alla perdita di benessere sociale e a conflitti causati dalla perdita di risorse naturali come suolo e acqua. Insomma, per ogni Euro di cibo prodotto ne abbiamo già spesi 3. Sono i cosiddetti costi nascosti che pagano i contribuenti. Il sistema agricolo industriale ha dunque una produttività negativa, e non potrebbe sostenersi senza le enormi sovvenzioni pubbliche. Il rapporto della Global Consultation Report of the Food and Land Use Coalition calcola che il pubblico fornisce più di 1 milione di dollari al minuto di sussidi agricoli globali, molti dei quali sono alla base della crisi climatica e della distruzione dell’ambiente.
I poteri che operano nel mercato e i moderni sistemi economici, basati su un uso intensivo di risorse e sulla massimizzazione dei profitti, stanno creando il caos nel mondo in cui viviamo, distruggendo sia gli ecosistemi terrestri, sia i sistemi democratici che garantiscono la giustizia e l’eguaglianza nella società. Nello spazzare via intere comunità e nel distruggere la biodiversità che mantiene vivo il nostro pianeta, i cambiamenti climatici stanno negando a diverse culture e diverse specie la libertà di sopravvivere e di continuare ad evolversi. Mentre l’agricoltura industriale basata su monocolture ed uso intensivo di sostanze chimiche tossiche è sempre più globalizzata, le specie viventi stanno scomparendo ad un ritmo che è 1000 volte più elevato di quello naturale, le risorse idriche si stanno esaurendo e i suoli si stanno progressivamente desertificando, spingendo intere comunità a lasciare le proprie terre. E’ il caso proprio dell’Italia, come recentemente certificato dall’Ispra che denuncia come si consumino 14 ettari al giorno di suolo con un aumento del 180% di consumo dagli anni ’50 ad oggi e come le nostre falde acquifere risultino sempre più inquinate dall’uso intensivo di fitofarmaci di cui il nostro paese è uno dei primi consumatori in Europa. Le malattie croniche non trasmissibili si stanno diffondendo a livelli epidemici, poiché al nostro organismo vengono negati i principi nutritivi essenziali che solo una dieta basata sulla biodiversità potrebbe fornire e il microbioma del nostro apparato digerente è costantemente aggredito da molteplici sostanze tossiche. Il costo di questo sistema per la sanità pubblica finanziata dalle tasse dei cittadini? Si prevede che entro il 2030, i costi relativi alle malattie non trasmissibili supereranno i 30 trilioni di dollari, pari al 48% del Pil mondiale, contribuendo così a far ricadere milioni di persone al di sotto della soglia di povertà.
Chi beneficia di questo sistema che certa stampa italiana e certi istituti intendono difendere a spada tratta? Una fetta sempre più ristretta della popolazione. Secondo un recente rapporto di Oxfam, i patrimoni accumulati dal 1% più ricco della popolazione mondiale sono pari a quelli della metà più povera dell’umanità, ovvero 3,6 miliardi di persone. Nel 2010, l’1% era rappresentato da 388 miliardari mentre nel 2017 da appena otto persone. Un processo di concentrazione legato ad un sistema economico escludente, che sfrutta le risorse del pianeta e quelle delle persone lasciando dietro di sé terra bruciata e povertà.
I risultati dell’analisi dello scenario globale della FAO per il 2050 mostrano chiaramente che proseguire sulla strada dell’”l’ordinaria amministrazione”, in cui le sfide alimentari e agricole non vengono affrontate, “porterebbe ad una significativa sottoalimentazione entro il 2050, anche se la produzione agricola lorda crescesse del 50 per cento dal 2012 al 2050, il che a sua volta contribuirebbe ad aumentare le emissioni di gas serra. Una simulazione del potenziale di una conversione al 100% all’agricoltura biologica per nutrire la popolazione mondiale del 2050 e contemporaneamente ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura ha dimostrato che la gestione biologica potrebbe effettivamente produrre abbastanza cibo per le persone senza degradare l’ambiente e senza maggior sfruttamento di terre, a condizione che il sistema alimentare sia progettato per ridurre del 50% l’uso di mangimi e le perdite e gli sprechi alimentari. Di conseguenza, sarà necessario ridurre il numero di animali (principalmente monogastrici) e il consumo di prodotti animali (globalmente, dall’11 al 38%). A tal fine, una prospettiva globale dei sistemi alimentari (di produzione e consumo) è fondamentale, piuttosto che limitarsi a fissare un obiettivo di resa massima per singole colture come criterio di prestazione a sé stante.
Secondo la Global Commission on the Economy and Climate, un cambio di paradigma garantirebbe un “guadagno” cumulato di 26 mila miliardi di dollari, rispetto al risultato atteso con il vecchio modello. Trasformare i sistemi di utilizzo del cibo e della terra nel prossimo decennio è un’opportunità notevole, che potrebbe avere un ritorno sociale più di 15 volte superiore ai costi d’investimento necessari, che sono stimati a meno dello 0,5% del PIL globale. Il rapporto afferma che il passaggio a una produzione sostenibile di cibo sano potrebbe sbloccare 4,5 trilioni di dollari in nuove opportunità commerciali ogni anno entro il 2030. Inoltre, si potrebbero creare, entro il 2030, 65 milioni di posti di lavoro verdi e si potrebbero evitare 700 mila morti premature dovute all’inquinamento dell’aria entro i prossimi dodici anni.
Le alternative già esistono e già hanno dimostrato la loro affidabilità, così come riconosciuto dalla stessa Fao che indica nell’agroecologia la chiave per ridisegnare i sistemi di produzione e distribuzione globale garantendo la sovranità alimentare alla popolazione mondiale. I piccoli agricoltori sono, in proporzione, più produttivi delle grandi aziende industriali: pur avendo a disposizione solo il 25% della terra arabile riescono a fornire il 70% del cibo a livello mondiale. Sono queste le alternative su cui ci piacerebbe si aprisse un dibattito. La sfida dello sviluppo sostenibile nel XXI secolo consiste nel riorientare i nostri sistemi agricoli e alimentari per renderli non solo più conformi alle esigenze nutrizionali e sanitarie di una popolazione mondiale in crescita, ma anche sostenibili dal punto di vista ambientale e finanziario.
In questo contesto, l’istruzione e la corretta informazione sono indispensabili. Tutti gli esseri umani sono soggetti in grado di conoscere, indipendentemente da classe sociale, razza, genere, religione, etnia o età. Tutte le comunità e culture sono creatrici di sapere. Le culture che sono sopravvissute nel tempo hanno costantemente evoluto i propri sistemi di conoscenza, che sono classificati come “sapere tradizionale”. Le strutture e istituzioni dominanti di produzione delle conoscenze nella società contemporanea hanno portato al dominio di “esperti”, escludendo il sapere popolare. Il diritto delle comunità e delle culture di sviluppare e potenziare congiuntamente il proprio sapere, ponendo le domande di loro scelta e condividendo queste conoscenze liberamente con altri gruppi e reti, costituisce la loro sovranità sulle conoscenze. Inquinamento, degrado ed esaurimento delle nostre risorse naturali, uniti al cambiamento climatico globale, costituiscono un chiaro segnale di pericolo. La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua capacità di mantenere la resilienza della biosfera e di sviluppare nuovi sistemi di conoscenza per aumentare la sua capacità di adattamento al cambiamento.
Tutti i sistemi viventi evolvono e quando cessano di evolvere muoiono. Ciò è vero sia per i sistemi naturali che per i sistemi culturali. Il sapere reale è un sistema vivente che cambia e si adatta alla realtà in cambiamento. L’utopia meccanicistica semplicistica è priva della complessità e della diversità necessarie per far evolvere le conoscenze. Sotto stress, i sistemi meccanicistici unidimensionali collassano a causa della loro mancata capacità di adattamento. L’uniformità priva i sistemi di meccanismi e potenzialità evolutivi. Ora che il modello dominante sta mostrando le sue inadeguatezze e i suoi fallimenti, dobbiamo necessariamente riconoscere la pluralità dei sistemi di conoscenza e le potenzialità della loro integrazione, essenziale per aumentare la nostra capacità di sopravvivenza come specie. L’adattamento in periodi di turbolenza esige il mantenimento di alti livelli di libertà e di scelta. Ciò esige diversità in tutte le sue forme. A livello intellettuale, questo significa pluralismo dei sistemi di conoscenza e degli approcci scientifici. A livello ecologico, significa diversità delle specie e degli ecosistemi. Una sintesi olistica tra il sapere popolare e il meglio della scienza ecologica moderna è vitale per tornare a un pianeta vitale e per guarire la società umana. In tali sistemi pluralistici, il sapere scientifico e quello tradizionale locale crescono e si arricchiscono grazie a un processo complementare di ibridazione.
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