Home > Notizie > i nostri articoli > Semi nelle mani degli agricoltori. Vandana Shiva: per le economie alimentari locali

Di Manlio Masucci, Navdanya International – Alt Giornale Partecipato, 15 dicembre 2017 | Fonte

Per le economie alimentari locali abbiamo bisogno di cibo locale e per il cibo locale abbiamo bisogno di semi locali, semi nelle mani degli agricoltori.

Il nostro diritto ad un ambiente sano, alla salute e ad una vita dignitosa è strettamente legato al modo in cui produciamo e commercializziamo il nostro cibo. Le grandi aziende di distribuzione dei prodotti alimentari industrializzati si sono insinuate nei tessuti sociali e distrutto le economie locali e le interazioni quotidiane delle comunità. Se vogliamo che la nostra vita quotidiana non venga più definita dalle logiche dei grandi poteri dell’economia e della finanza globale, è fondamentale assegnare all’auto-organizzazione un valore più alto, dove il nostro lavoro, il nostro territorio, le nostre risorse naturali diventano mezzo ed espressione della vera democrazia. Promuovere oggi l’aggregazione sociale, lo sviluppo sostenibile e consapevole, in altre parole, proporre un’alternativa alla crisi partendo dalla ricostruzione del tessuto sociale eroso a livello locale significa comprendere appieno le strategie e le modalità dei soggetti che continuano a mettere a serio rischio il nostro diritto al benessere. Da questo punto di vista, Scup si è posto come spazio aperto di dibattito in cui non solo si analizzano le problematiche dell’economia globale e il loro impatto a livello locale ma dove si propongono soluzioni basate su un pensiero alternativo all’imperante dogma neoliberista. C’è dunque un link molto chiaro e diretto che collega i dibattiti sui trattati di libero commercio che minacciano le economie locali, come il Ttip e il Ceta, e, in generale, sui comportamenti delle multinazionali del settore alimentare e l’organizzazione di mercati di piccoli produttori, l’allestimento di un’osteria popolare fino alla partecipazione di Scup al tribunale Monsanto tenutosi all’Aia nell’ottobre del 2016.

Per le economie alimentari locali abbiamo bisogno di cibo locale e per il cibo locale abbiamo bisogno di semi locali, semi nelle mani degli agricoltori. Da sempre gli agricoltori hanno curato e coltivato semi per promuovere diversità, resilienza, gusto, apporto nutrizionale, salute, in adattamento agli agro-ecosistemi locali. In tempi di cambiamento climatico, abbiamo bisogno della biodiversità derivata dalle varietà degli agricoltori, di capacità di adattamento ed evoluzione. Per millenni i semi sono stati selezionati dagli agricoltori allo scopo di ottenere il maggior numero possibile di varietà in continua evoluzione, che si adattassero alle specifiche caratteristiche ambientali e condizioni climatiche di ogni particolare territorio. Il sistema industriale ha invece privilegiato un tipo di selezione basata su poche varietà potenzialmente adattabili a una vasta gamma di condizioni diverse.

I semi sono un patrimonio dell’umanità e chi li possiede ha la possibilità di influenzare profondamente la nostra esistenza. E’ in questo contesto che un gruppo di potenti multinazionali ha deciso di assumerne il controllo. Quattro multinazionali controllano attualmente la maggior parte del mercato dei semi nel mondo e continuano a cercare di guadagnare posizioni ambendo al controllo totale attraverso l’ingerenza indebita sui governi e sugli enti preposti per far promulgare leggi e regolamenti che gli permettano di appropriarsi del controllo sui semi. In tutto il mondo, nuove leggi sui semi vengono introdotte per imporre la registrazione obbligatoria delle sementi, rendendo così impossibile per i piccoli agricoltori coltivare la propria diversità, e costringendoli alla dipendenza dalle multinazionali.

Il modello agricolo industriale è inoltre basato su monocolture, sull’ampio uso di prodotti chimici e sempre più sull’utilizzo di sementi geneticamente modificate. I recenti rapporti “Il veleno è servito”, e “The toxic story of Round Up”, hanno messo in evidenza le modalità, tutt’altro che democratiche e trasparenti, con cui le multinazionali del settore influenzano i decisori politici per ricavare ingenti profitti attraverso l’imposizione di un sistema di produzione e di distribuzione iniquo e insalubre. L’evidenza dei danni causati da questo sistema ha recentemente portato l’Onu a prendere una posizione netta. Come rilevato nel recente rapporto del Rapporteur speciale per il Diritto al Cibo delle Nazioni Unite, Hilal Elver – pubblicato nel 2017 – “si stima che i pesticidi siano la causa della morte di almeno 200.000 persone ogni anno, delle quali il 99% proviene da paesi in cui le regole ambientali, sanitarie e della sicurezza sul lavoro non sono particolarmente restrittive o comunque scarsamente applicate”. Il prossimo capitolo di questa vicenda “tossica” lo scriverà l’Unione Europea chiamata a decidere sul rinnovo dell’autorizzazione per l’utilizzo del glifosato. Francia e Austria hanno apertamente dichiarato la loro contrarietà, una posizione sottoscritta anche dal nostro ministro Maurizio Martina. Il risultato della votazione finale è però tutt’altro che scontato.

Per contrastare questo modello distruttivo è dunque necessaria la mobilitazione della società civile  ma altrettanto importante è creare e promuovere un modello agroalimentare che non ci avveleni, che produca cibo sufficiente, che produca lavoro dignitoso e relazioni sociali e che sia in armonia con la terra. La grande forza della diffusione di un modello agricolo, sociale, economico e comunitario di tipo ecologico è nella riconquista di quella autonomia che rende le grandi multinazionali irrilevanti e inutili. E i mezzi per riconquistare la nostra agricoltura, i nostri territori, il nostro cibo, il nostro ambiente naturale sono nelle nostre mani. L’agricoltura biologica ed ecologica e i sistemi alimentari locali sono la risposta alla crisi alimentare, nutrizionale e sanitaria, alla crisi climatica e delle risorse idriche. L’unico modo per ridurre l’impronta ecologica e aumentare la salute e il benessere umano è attraverso la costruzione di economie alimentari locali.

E’ in questo contesto che l’esperienza e l’impegno del collettivo di Scup, come di tanti altri luoghi analoghi, appare lungimirante nella sua capacità di rispondere localmente a sfide che provengono da lontano. L’impegno delle cucine popolari, l’organizzazione di mercati di agricoltori e piccoli produttori locali, la creazione di gruppi d’acquisto non sono solo proposte utili per la preservazione e la ricostruzione di un tessuto minacciato dal neoliberismo economico ma rappresentano risposte chiare al modello che le multinazionali del settore stanno cercando di imporre attraverso azioni di lobby. Questa lungimiranza nell’approccio, la capacità di saper riconoscere e rispondere alle sfide in maniera organica e reticolare, ha trovato una delle sue migliori espressioni nell’ambito del Tribunale Monsanto organizzato, nell’ottobre 2016, all’Aia, in Olanda, dalle maggiori organizzazioni del settore tra cui Navdanya, Organic Consumer Association, Ifoam, Biovision, Via Campesina. In quell’occasione, un rappresentante di Scup era presente all’Assemblea Popolare dell’Aia insieme a centinaia di movimenti provenienti da tutto il mondo per condividere le esperienze locali e creare connessioni per strutturare ulteriormente la resistenza globale.

La lotta è impari, certo, ma i primi risultati cominciano a vedersi. A seguito delle conclusioni del Tribunale, la Monsanto ha cominciato a mostrare i primi cenni di sfinimento. La recente notizia dell’allontanamento dei lobbisti della Monsanto dal Parlamento Europeo è una piccola vittoria a cui la tenacia dei movimenti ha senz’altro contribuito. Ma la battaglia non è vinta, al contrario è appena iniziata. E va condotta su tutti i fronti. L’adesione di realtà come Scup è la benzina necessaria a vincerla. Una mobilitazione internazionale basata su quello che dovrebbe rappresentare l’interesse comune di tutta l’umanità: la rivendicazione del diritto a un’alimentazione sana dove il cibo non sia considerato semplicemente come una merce da cui trarre profitto ma che, al contrario, sia un diritto inalienabile, sovrano, nelle mani della gente, funzionale allo sviluppo delle relazioni sociali e degli scambi culturali.