La Nuova Ecologia, 25 settembre 2019 | Fonte
L’intervista a Elena Tioli, di Navdanya International, che racconta l’iniziativa di divulgazione promossa da Alce Nero per indagare il delicato rapporto tra la salute della Terra e quella delle persone.
Un’unica salute lega le persone e il Pianeta: prodotti agricoli e un cibo che nutra in modo corretto non possono provenire da un’agricoltura che sfrutta risorse, terre e persone. Non è più possibile pensare che una vita sana non abbia a che fare con il modo in cui si sceglie di produrre il cibo e vivere la salute a partire da esso. ‘Siamo fatti di terra’ è un progetto ideato da Alce Nero, agricoltori e trasformatori biologici dal 1978, che nasce con lo scopo di riflettere su questi temi, unendo agronomi, nutrizionisti e ricercatori allo stesso tavolo per approfondirne i contenuti, sostanziarli e divulgarli, in collaborazione con il media partner LifeGate.
Tra i partecipanti agli eventi di ‘Siamo fatti di terra’ è stata coinvolta anche Navdanya International. Elena Tioli, collaboratrice dell’associazione nata in India trent’anni fa grazie all’iniziativa della scienziata, ambientalista e attivista per i diritti umani, Vandana Shiva, racconta questa realtà.
Che cos’è Navdanya International?
Navdanya è un movimento che nasce per la difesa della sovranità alimentare, della biodiversità, dei semi e dei diritti dei piccoli agricoltori in tutto il mondo; combatte contro i veleni in agricoltura e la diffusione degli Ogm, contro i cosiddetti trattati di libero commercio di nuova generazione, la ‘biopirateria’, il monopolio e i brevetti sui semi. Promuove al contempo un nuovo paradigma agricolo ed economico, una cultura del ‘cibo come salute’. Navdanya ha come scopo il riscatto dei beni comuni come fondamento di un rinnovato senso di comunità, solidarietà e di una cultura di pace che inevitabilmente deve ripartire da un rinnovato rapporto con la Terra e con il cibo.
Il progetto ‘Siamo fatti di terra’ approfondisce il tema dell’equilibrio tra la salute della terra, intesa come suolo e Pianeta, e quello delle persone. Qual è il vostro punto di vista a riguardo?
Il suolo è vita. Un microbioma terrestre ricco significa piante sane, cibi nutrienti, ecosistemi vitali e resilienti. Tutto dipende dal suolo. Per questo è fondamentale superare un’agricoltura industriale che lo depaupera con pesticidi e fertilizzanti che, decimando gli organismi in esso presenti, lo rendono sempre più sterile e inospitale alla vita. Questi metodi produttivi basati sulla chimica non solo distruggono la biodiversità ma non restituendo materia organica al suolo diminuiscono la capacità dello stesso di trattenere l’acqua. L’1% di materia organica nel suolo può contenere fino a 160.000 litri per ettaro, ma senza materia organica il ciclo dell’acqua s’interrompe, desertificando aree. I sistemi agroalimentari che ci privano dei nostri alimenti nutrienti, ci privano così anche dell’acqua. Non solo. Il nuovo rapporto dell’Onu sui cambiamenti climatici, presentato a Ginevra l’8 agosto scorso, ha messo nero su bianco la stretta relazione fra il cambiamento climatico e la salute del suolo. È tutto connesso: il microbioma del suolo, il nostro microbioma intestinale, il funzionamento del nostro Pianeta.
Crediate esista un modello agricolo in grado di preservare questo equlibrio e produrre a sufficienza per sostenere la crescita dell’intero pianeta? Spesso si dice, infatti, che con un modello agricolo sostenibile non saremo in grado di sfamare tutta la popolazione mondiale.
L’unica strada per garantire a tutti l’accesso al cibo e la possibilità di una vita dignitosa per tutti si chiama agroecologia. Un’agricoltura basata sul rispetto della terra e della vita, è questa la risposta. È questa la vera rivoluzione. Ed è già in atto. Secondo quanto riportato dalla Fao nel rapporto ‘Stato dell’Alimentazione e dell’Agricoltura 2014’ sono le aziende agricole di piccole e medie dimensioni, per lo più a conduzione familiare, a produrre circa l’80% del cibo a livello globale e a essere cruciali nel nutrire la popolazione mondiale, salvaguardando le risorse e la biodiversità. Non gli Ogm, non le monoculture, non l’agrochimica. Dobbiamo quindi ripartire da qui: rimpossessarci delle conoscenze contadine, coltivare nel rispetto della terra e degli esseri viventi, garantire il libero scambio dei semi e il libero accesso alle terre. Questo significa innanzitutto supportare chi della terra si prende cura. Non può esistere un’agricoltura senza contadini. Dobbiamo sostenere chi produce cibo buono, chi tutela la nostra salute, chi custodisce i semi, chi difende e custodisce pratiche antiche, chi lavora nell’interesse dell’umanità e chi lotta per questo, perché sta lottando anche per la nostra libertà. Per il nostro diritto alla vita.
Se doveste fare un esempio di casi in cui questo equilibrio non è stato preservato?
In tutto il mondo ormai l’agricoltura industriale ha soppiantato e sta soppiantando quella tradizionale. Con tutto ciò che ne consegue. In India, dove la cosiddetta ‘Rivoluzione verde’ è arrivata negli anni Settanta a suon di semi geneticamente modificati, brevetti e pesticidi, oggi la popolazione paga un prezzo altissimo per quelle scelte agricole. L’emergenza nutrizionale e quella idrica imperversano a causa dell’imposizione di un modello agricolo basato sulla chimica che ha imposto monocolture e metodi industriali a favore esclusivo dell’agrochimica, a danno delle popolazioni e degli agricoltori. Tra queste quella di cotone Ogm, di soia e di canna da zucchero, imposta ormai 40-50 anni fa dalla Banca Mondiale nella regione del Deccan del Maharashtra. Una zona semi arida in cui la piovosità media è di 600 mm. Siccome la canna da zucchero richiede 2.500 mm d’acqua, si è dovuto ricorrere a estrarre l’acqua in profondità. E così oggi non c’è più acqua. Non ci sono più contadini, costretti a svendere le proprie terre perché impossibilitati dai costi di produzione e dai pochi ricavi, e interi paesi sono finiti sul lastrico. E questo succede in tutto il mondo. Dal Brasile all’Argentina, dove le coltivazioni di soia Ogm hanno inquinato i suoli, contaminato le falde acquifere e da decenni stanno mietendo vittime. Dal Costa Rica al Messico, dove i campi di caffè, banane e ananas hanno spazzato via foreste e popolazioni locali e indigene, fino all’Indonesia dove le palme da olio hanno sostituito un incredibile patrimonio vegetale e animale. L’importanza del Manifesto Food for Health è proprio questa: unire i puntini. Disegnare le connessioni che necessariamente ci sono tra un determinato modello agricolo con l’ambiente, la salute, l’economia e la qualità della vita delle persone. Tutto è collegato.